
Sembra che l’empatia e le altre abilità di interazione sociale abbiano origine sulla superficie della corteccia cerebrale, mentre gli istinti più selvaggi e animaleschi, che hanno garantito la sopravvivenza della specie umana nei millenni, occupino il restate 99% del cervello. Da qui il titolo originale R.M.N., ossia “Risonanza Magnetica Nucleare”, uno strumento di indagine del cervello che ha come obiettivo quello di cercare ciò che si cela sotto la superficie. L’ultimo film di Cristian Mungiu in qualche modo scava nella testa della comunità che rappresenta, fungendo a tratti da indagine sociale, in cui un piccolo villaggio della Transilvania è qui usato come sineddoche della direzione oscura in cui si sta muovendo l’essere umano del III° millennio.
Matthias, dopo aver rinunciato all’impiego che aveva in Germania in seguito a un dissidio con il suo datore di lavoro, torna nel suo villaggio per ritrovare moglie e figlio (stranamente entrato in una forma di mutismo dopo aver visto qualcosa nel bosco adiacente). Qui ritrova anche la sua vecchia amante, Csilla, braccio destro di un laboratorio che fornisce pane agli abitanti della zona. Quando il forno deciderà di assumere dei lavoratori dello Sri Lanka per occupare posti di lavoro che nessuno voleva, gran parte del villaggio scatenerà la sua xenofobia e il suo malcontento nei confronti dei tre stranieri e di coloro che li hanno assunti.
Lo stile di Mungiu, come al solito, non permette di sbattere le ciglia: ne è massimo esempio un piano sequenza a inquadratura fissa (marchio di fabbrica del regista romeno) della durata di 17 minuti, nel quale dialogano, litigano e interagiscono ben 26 personaggi, ovvero gran parte della comunità che avevamo imparato a conoscere nella prima – più compassata – parte del film. E in questa sequenza, senza dubbio la più iconica, cuore rovente del film, sentiamo parlare romeno, ovviamente, ma anche ungherese, tedesco, francese e inglese, a sottolineare la natura multietnica di una regione che nei secoli è appartenuta a nazioni, se non imperi, differenti e dove dunque convivono etnie e religioni di diverso genere. E in tutto ciò Matthias è sempre in mezzo, lui che all’estero ci ha lavorato (ed è stato vittima di discriminazione), troppo ingenuo e forse ignorante per non appoggiare le rimostranze xenofobe dei cittadini più facinorosi, ma a suo modo anche buono nel prendersi cura delle persone a cui tiene. E nel momento in cui il razzismo ti disgusta di più, sempre all’interno di quella splendida scena di 17 minuti, Mungiu cambia discorso accusando i “buoni” di sfruttamento, di classismo (“Anche il prete ha la Mercedes” fa entrare in gioco anche una risata, in una situazione in cui da ridere non c’è davvero niente) e perdi, anche solo per un momento, la bussola su chi abbia veramente ragione (i lavoratori cingalesi, ovviamente, sono sempre e unicamente loro ad avercela). Tutta questa cattiveria nei confronti di ciò che viene da fuori sembra quasi un triste presagio di qualcosa che nei mesi successivi arriverà da lontano per cambiare la vita di tutti, in tutto il mondo. Non è un caso che il film si svolga a cavallo tra il 2019 e il 2020, come a voler dire: il peggio deve ancora venire.


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