Recensione “The Killer” (2023)


L’incipit è di quelli che non si dimenticano facilmente: siamo in un buio open space all’ultimo piano, dalle finestre aperte l’inconfondibile architettura haussmaniana dei palazzi parigini contribuisce a fornirci le coordinate geografiche della scena. Fassbender è là, seduto davanti alla finestra aperta, e la sua voce, fuori campo, comincia a descrivere una routine tediosa, stancante, noiosa all’inverosimile, però fondamentale per chi, come lui, di lavoro fa l’assassino a pagamento e deve attendere l’arrivo della sua prossima vittima, di cui sa poco o nulla (meno sai, meglio è). Nella sequenza parigina c’è il cuore del film e c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per entrare a contatto con la storia. L’incarico va male e trasforma il film in un revenge movie che porterà il protagonista a Santo Domingo, New Orleans, Miami, New York e Chicago. Ogni città un capitolo a sé, ogni capitolo la dimostrazione delle straordinarie capacità “professionali” del nostro assassino senza nome (anzi, con troppi nomi), freddo, metodico, calcolatore, costantemente fedele a una sorta di bushido personale in cui ripete, in diversi momenti della storia, l’importanza di attenersi al piano. A fare da collante tra tutte queste sequenze, inaspettatamente, c’è una playlist zeppa di successi degli Smiths.

I am the son and heir of nothing in particular, canta la voce calda di Morrissey, a sottolineare la natura fredda e immorale, quasi meccanica, di questa sorta di Terminator in carne ed ossa, uno di quei geni del cinema che, se non fosse stato assassino, forse sarebbe stato un agente segreto o un esperto della CIA. Non accade niente di particolarmente originale in questo film: c’è un uomo spietato e, quel che peggio per i suoi nemici, veramente arrabbiato. Cerca vendetta e per questo motivo si lascerà alle spalle una lunga scia di sangue. Niente che non si sia già visto in decine di film del filone e, se tutto ciò non appare nuovo agli occhi dello spettatore comune, cos’è allora che fa la differenza, tale da rendere The Killer un film bellissimo? Semplice: un regista magnifico e un grandissimo interprete (anzi due, visto che c’è anche una comparsa straordinaria di Tilda Swinton, in una sequenza di pochi minuti che è forse la cosa più bella del film). E poi i silenzi, le lunghe scene senza parole, né conversazioni, cosa rara in un film di vendetta, ma sempre e solo il tappeto musicale con la band di Manchester. Gli Smiths, ovviamente, la maionese che unisce i diversi sapori di un film comunque eclettico, ricco di scenari e di registri differenti, Morrissey e Marr come punto di contatto che ci permette di sentire più vicino, più simile a noi, un assassino professionista (e un fan degli Smiths non potrà mai davvero essere una cattiva persona, o no?).

Alcune incongruenze sono bizzarre per un film di Fincher, che sia il manifesto che si ripete ossessivamente il protagonista salvo poi venir meno a quelle parole fallendo il colpo, o la stonatura di vedere un uomo senza morale né, apparentemente, umanità, che si dedica a un’appassionata vendetta causata dall’amore. Ma il punto è senza dubbio la messa in scena: Attieniti al piano, non improvvisare, afferma la voce off di Fassbender e sembra quasi di ascoltare il mantra che gira nella testa del regista, in una costruzione pressoché perfetta di ogni sequenza, come se ogni capitolo fosse una sorta di splendido cortometraggio a sé. Sarà una storia vista e rivista (e lo è), ma quando dietro la macchina da presa c’è uno dei più grandi registi della sua generazione, i risultati sono questi.


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