
Il Festival di Cannes sembra amare le storie di vita vissuta, storie di periferia, di persone vere, umane, fragili. Dopo lo straordinario 4 Mesi, 3 Settimane e 2 Giorni del romeno Cristian Mungiu, premiato lo scorso anno sulla Croisette, nell’ultima edizione la Palma d’Oro di Cannes ha sventolato sull’intensa pellicola di Laurent Cantet, La Classe, che arriva in Italia forte di questo prestigioso biglietto da visita. Il pubblico italiano ricorderà La Scuola di Daniele Luchetti, oppure Io Speriamo Che Me La Cavo di Lina Wertmuller, commedie dal retrogusto amaro, entrambe ambientate tra mura scolastiche che odorano di periferia. Cantet si spinge ben oltre: lasciato da parte tutto ciò che può sembrare fiction, il regista francese ha realizzato un film dalla forte impronta documentaristica, lasciando interpretare il ruolo principale (ovvero il ruolo del professore di lettere) allo scrittore del libro autobiografico dal quale è stato tratto il film, permettendogli in tal modo di interpretare se stesso. Non si tratta di un documentario, piuttosto di una versione moderna di quel cinema-verità tanto agognato da Cesare Zavattini negli anni del dopoguerra.
Storie di vita all’interno di una delicata scuola media alla periferia di Parigi: un rendez-vous di differenze etniche, culturali e sociali, sotto lo sguardo e la direzione attenta e moderata del professore di lettere, François Begaudeau, dedito continuamente nel trovare nuovi metodi per motivare e stimolare i suoi studenti, sciatti e abbandonati a loro stessi, vittime di una società e di una città che insegna loro a colpire dove fa male, a evitare i diversi (in quanto a etnia, look, stile di vita), a evitare il dialogo, a dare le spalle alle istituzioni. Ma dietro ogni studente, dietro ogni difficoltà, c’è una persona che cerca di uscire fuori, che cerca di crescere, di integrarsi, che attivamente o passivamente impara a conoscere meglio la vita, problema dopo problema. Tutto ciò che accade all’interno della classe mette il professore di fronte ad una costante prova di resistenza, rinnovata giorno dopo giorno, che lo costringe a vestire i panni dell’educatore, del padre, della vittima e dell’aguzzino, e dove ogni nota disciplinare, ogni voto negativo rappresenta una sconfitta personale, dell’uomo e della società che rappresenta.
Un uso costante della camera a mano, un montaggio attento ad ogni sfumatura e ad ogni smorfia degli studenti, impiego del tempo reale di rappresentazione (esemplare una delle scene iniziali, con un lungo botta e risposta tra il professore e la classe): elementi che arricchiscono la sensazione documentaristica che permea tutta la pellicola, coinvolgendo lo spettatore in ogni situazione, prendendolo per mano e portandolo tra le mura di questa scuola media, dove tutto ciò che accade è solo la conseguenza di qualcosa che è accaduto, e l’antefatto di qualcosa che accadrà. Un film intenso, ricco di spunti e di interesse, coinvolgente anche quando si ha voglia di condannarlo, che richiede allo spettatore la stessa pazienza che è richiesta al professor Begaudeau nei confronti dei suoi studenti.


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