Recensione “È stato il figlio” (2012)

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Prendete Daniele Ciprì, un artigiano del cinema, più noto come direttore della fotografia piuttosto che come regista. Prendete Toni Servillo, uno dei volti più importanti del cinema italiano dell’ultimo decennio, qui protagonista totalmente sopra le righe, a metà strada tra Homer Simpson e Michael Corleone. Prendete anche Alfredo Castro, star del cinema cileno e narratore della vicenda, indimenticabile Tony Manero nel film omonimo di Pablo Larrain. Buttateci dentro qualche bel caratterista siciliano, Palermo poi fa il resto. Con questi ingredienti genuini Ciprì mette insieme uno dei migliori film italiani visti quest’anno al Festival di Venezia, capace di raccontare drammi e tragedie con un’ironia di fondo piena di quei colori e di quella vitalità che forse solo il Sud Italia, e in particolare la Sicilia, ci può raccontare.

La storia di “uno che, per un graffio alla macchina, ammazzò suo padre”, come recita l’incipit della pellicola. È la storia della famiglia Ciraulo, padre, madre, figlio grande, bambina piccola e nonni, tutti nella stessa casa alla periferia di Palermo. Nicola, il capofamiglia, è l’unico che lavora e sostiene la famiglia. Un giorno, di ritorno dal mare, la piccola Serenella resta uccisa per sbaglio durante un regolamento di conti tra bande rivali. Incombe la disperazione, ma anche la speranza di una svolta economica: lo Stato infatti riconosce un risarcimento per le vittime della mafia. I soldi tardano ad arrivare, mentre la famiglia si indebita sempre di più, finendo anche nelle mani di un usuraio. Quando finalmente arriva il denaro, pagati tutti i debiti, l’importo iniziale si è notevolmente ridotto, costringendo i Ciraulo a pensare al modo di investirli.

Una storia così folle, drammatica, ironica, si può raccontare solo in Italia. È in film come questo, in cui il nostro Paese viene raccontato con gli ingredienti di cui sopra, che il cinema italiano riesce a trovare vitalità, originalità, carattere. Quelle stesse peculiarità che, per restare in un tema caldo dei giorni scorsi, mancano alla “Bella addormentata” di Bellocchio, che al contrario è atrocemente italiano, se mi si concede il termine. Un film che accenna all’Italia senza scadere in patetismi, seppur accarezzandone i cliché, ma voltandoli a proprio favore (come le scene dall’usuraio, con il tormentone del prestito le cui condizioni vengono sempre negate allo spettatore a causa di un treno di passaggio). Quello di Ciprì è un cinema matto, che è serio senza però prendersi troppo sul serio. Citando il regista stesso: «Viva la follia, viva il cinema».

pubblicato su Livecity

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