Recensione “Ida” (2013)

I frequentatori del Festival di Roma ricorderanno il regista Pawel Pawlikowski per l’intrigante “La femme du Cinquième”, con Ethan Hawke e Kristin Scott Thomas, presentato all’Auditorium nel 2011. Stavolta il regista polacco mette da parte il thriller psicologico per incentrarsi su un meraviglioso dramma in cui si incontrano due donne molto diverse tra loro, ma ognuna fortificata dai propri principi e dal proprio passato. Basterebbe osservare la regia di Pawlikowski per godere di questo film (una lunga serie di inquadrature fisse, splendide cornici riempite da una sobria ed elegante composizione); basterebbe ammirare il bianco e nero della fotografia per restare estasiati. Ma c’è di più: due grandi attrici, una storia scevra da ogni retorica, ottima musica. Polonia, anni 60. Anna è una giovane orfana cresciuta in convento, dove sta per diventare suora. Prima di farlo però deve conoscere una zia ancora in vita, della quale ignorava l’esistenza: l’incontro tra le due donne è l’incontro tra due solitudini, tra due caratteri opposti, accomunati dal passato. Anna scopre di essere ebrea, e che il suo vero nome è Ida. Questa rivelazione spinge la ragazza a cercare le proprie radici e andare alla ricerca della verità, insieme a sua zia, libertina, cinica, brillante, con la quale nonostante le differenze Ida instaurerà un legame speciale. La realtà è più potente di qualunque religione: Ida, una volta messo piede fuori dal convento, dovrà scontrarsi con la vita, i desideri, le attrazioni di un mondo che si muove fuori da quelle mura dove è cresciuta. Cosa scegliere? La religione che l’ha salvata durante l’occupazione o tutto ciò che ha trovato fuori dal convento? La risposta la darà la vita. Il regista l’ha definito “un film sull’identità, la famiglia, la fede, il senso di colpa, il socialismo e la musica”. Applaudito, tra gli altri, al Sundance, a Toronto (International Critics’ Award), a Londra (Miglior Film) e a Torino: una perla di rara bellezza.

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