17 Ottobre.
E così, arrivò anche la decima edizione del Festival/Festa. Facciamo Festival, io ho sempre preferito chiamarlo così, tanto cambia poco. Il 2006 sembra dietro l’angolo, rivedere le foto e i video di quei giorni, di un me senza barba, con più capelli (ma pettinati male), mi fa tornare indietro di una vita. Da allora non sono mai mancato, e ormai anche il Festival ha voluto premiarmi, aprendo le danze proprio ieri, il giorno del mio compleanno… Ad aprire i battenti ci ha pensato Truth di James Vanderbilt, con Cate Blanchett e Robert Redford (senza dimenticare il grande Dennis Quaid), il film che mi ha fatto ricordare perché da bambino sognavo di fare il giornalista, e che mi ha fatto ricordare anche perché poi ho cambiato idea. Ho sempre amato le inchieste giornalistiche su grande schermo: ad esempio, “State of Play”? Piaciutissimo. “Tutti gli uomini del Presidente”? Capolavoro. “Fortapasc”? Uno dei migliori film italiani di questo secolo. Per dire. “Truth”? Molto bello, recitato in maniera pazzesca (visti i nomi degli interpreti inutile aggiungere altro a proposito), sa coinvolgere ma al tempo stesso non affonda abbastanza. Ma se dovessero chiedermi se vale la pena vederlo risponderei decisamente di sì, anche se sicuramente non sarà il miglior film che vedremo in questo Festival (sembra figo dirlo così, facendo finta di aver scritto questo dopo aver visto solo un film, in realtà dopo “Room” so già quale sarà il miglior film di questo Festival, o almeno credo). Se vuoi vedere immagini e commenti a proposito del red carpet di Cate Blanchett e Robert Redford resterai deluso, perché a presentare il film c’era il solo regista. Se avere meno star fa alzare il livello della programmazione, per quanto mi riguarda va benissimo così.
Nel pomeriggio la Sala Sinopoli si è riempita per l’incontro tra una grande coppia del cinema: Frances McDormand e Joel Coen, attrice e regista da Oscar (lei per “Fargo”, lui per “Non è un paese per vecchi”). Tra vecchie clip, battute e aneddoti, i due hanno sciorinato i momenti chiave della loro collaborazione per un’oretta e mezza, mettendo un punto importante su questo Festival: non solo film, ma anche tanti incontri appassionanti.
Torniamo ai film, oggi è stato il giorno del cinema “claustrofobico”, visto che ho avuto modo di vedere due film più o meno chiusi in una stanza… “Room”, di Lenny Abrahamson (già regista del buonissimo “Frank”), ha messo i brividi a tutti. Madre e figlioletto vivono da anni dentro una stanza, un “monolocale” di pochi metri quadrati: il motivo? Agghiacciante. Quello che succederà? Emozionante. Ecco un film che fa venire voglia di mandare al diavolo il blog, gli articoli, la pigrizia, il Festival stesso e lanciarsi alla (ri)scoperta di tutto: cibo, persone, esperienze, vita. Però poi restereste senza diario e soprattutto io resterei senza film, quindi facciamo che ricominciamo a vivere dopo la prossima settimana. A fine proiezione applausi da spellarsi le mani (non da parte mia, odio applaudire ad uno schermo, ma condivido empaticamente il gesto). Anche se sono passati solo due giorni, questo è decisamente il film da vedere. L’altra pellicola “claustrofobica” del giorno è stata il documentario “The Wolfpack” di Crystal Moselle: la storia di sette fratelli che per volere del loro padre (della sua religione o di chissà quale voce dentro la sua testa) hanno passato l’infanzia e buona parte dell’adolescenza praticamente rinchiusi dentro casa. Studiavano a casa, mangiavano a casa, evitando qualunque rapporto con l’esterno (New York è il Male!). Cosa facevano tutto il giorno? Guardavano film, poi li reinterpretavano, con tanto di costumi, scenografie e oggetti di scena, davanti ad una telecamera amatoriale: “Le iene”, “Batman”, “Pulp Fiction”… La vita forse non è proprio un film, ma a volte ci si avvicina, almeno fino a quando uno di loro non ha deciso di scoprire cosa c’è fuori dalla porta di casa. Interessante per la sua assurdità, ma non imperdibile. Bello però pensare quanto grande può essere il potere del cinema sulla vite di chi lo ama davvero a fondo.
Per il resto, dalla serie “voci di corridoio”, tra una fila e un pranzo ho sentito parlar molto bene dell’opera prima “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, abbastanza bene del giapponese “Whispering Star” di Sion Sono, mentre sembra che abbia un po’ diviso il documentario “Junun” di Paul Thomas Anderson (che dovrei recuperare domani). Domani, tra le altre cose, c’è il nuovo film di Noah Baumbach, e io sono felice come un bambino. Buonanotte.
19 Ottobre.
Eric Cantona. Scusate, ma devo ancora riprendermi dal fatto di aver scambiato due parole con Eric Cantona. Vorrei parlarvi tanto di cinema, dei film, di tutto, ma non riesco a scrivere altro che Eric Cantona. Ok, ora sono pronto. Cantona. Scusate. Dunque, Eric Cantona a parte, davanti al quale ho perso la dignità, tra ieri e oggi ho visto la bellezza di otto film (8!), motivo per cui ho il vago terrore di non ricordare più di cosa dovevo parlare, ma ci proverò ugualmente. Cominciamo da ieri. In mattinata la doppietta statunitense “Freeheld”-“Mistress America” ha dato un senso al suono della sveglia alle 7.30 di domenica mattina. “Freeheld” porta nuovamente al Festival una Julianne Moore malata di qualcosa (lo scorso anno era l’Alzheimer di “Still Alice”, quest’anno un cancro ai polmoni in stile Walter White): il film ci mette un po’ a decollare, ma quando lo fa non molla più. L’entrata in scena di Steve Carrell, linea comica decisamente in stile Saul Goodman, dà la svolta in più al film, tratto da una storia vera. Benissimo Ellen Page e Michael Shannon, mentre la bravura di Julianne Moore non dovrebbe fare più notizia, anche se nella seconda parte è messa un po’ da parte per dare spazio alla storia e agli altri personaggi.
Chi segue un minimo questo blog conoscerà il mio amore incondizionato per il cinema indipendente americano, per Noah Baumbach e per Greta Gerwig. Queste tre cose sono piombate tutte e tre insieme al Festival di Roma, racchiuse nel divertentissimo “Mistress America”, meno ispirato rispetto a “Frances Ha”, ma in qualche modo complementare ad esso. L’imperfezione degli esseri umani, il confronto tra una generazione che vuole essere accettata e un’altra che non vuole sentirsi superata, la mancanza (?) di talento, il bisogno di raccontarsi. Greta Gerwig come al solito è pazzesca, i tempi comici sono perfetti ed alcune battute sembrano uscite fuori dal taccuino di Woody Allen (“Me ne vado a Los Angeles per sentirmi intellettualmente superiore”). Film che ho adorato, e quanto ho riso! Da vedere.
“Junun” di Paul Thomas Anderson invece è un documentario anomalo, una sorta di “making of” che dietro la realizzazione di un progetto musicale totalmente affascinante (il chitarrista dei Radiohead Johnny Greenwood incontra le sonorità dell’India e un compositore israeliano) mostra in realtà il rispetto e la serietà che c’è (o che dovrebbe esserci) nei confronti della musica. Insomma, è un film che insegna a rispettare la musica, soprattutto quando ci sono di mezzo culture così particolari. C’è tutta una spiritualità di fondo che in un certo modo ipnotizza e attira lo spettatore nel labirinto melodico di questo luogo magico. Cinquantacinque minuti di totale fascinazione.
Se ci fosse un premio per il miglior film rovinato dal finale, sarebbe logico vederlo tra le mani di Celso Garcia per “La delgada linea amarilla”: il film messicano è un road movie dal mood tipicamente latino, pieno di occasioni perse e voglia di riscattarsi, avvolto dal solito grande calore umano dei personaggi e divertente in più di un’occasione. Però, come detto, si suicida nel finale, con una trovata narrativa totalmente fuori luogo e senza senso. Che peccato.
Arriviamo dunque alla giornata di oggi, cominciata in mattinata con una gran bella sgrullata di pioggia e proseguita con un sole strepitoso e vampate di caldo. Eric Cantona (scusate, era troppo tempo che non lo scrivevo). In mattinata altra sveglia disumana per le mie abitudini, ma inevitabile per la proiezione di “The Walk” di Robert Zemeckis: non si può discutere sulla fattura tecnica del film, che da questo punto di vista sembra davvero eccezionale, ma in alcune cose devo dire che non mi ha convinto. Forse il fatto di conoscere già molto bene la storia di Philippe Petit ha giocato a mio sfavore, ma d’altronde il mio timore è proprio questo: se avete già visto il documentario premio Oscar “Man on Wire”, rischiate di non apprezzare totalmente questo film. Ad ogni modo è un bel film, ha un 3D che stavolta merita (se non altro per accompagnare con un po’ di effetto vertigine l’impresa del funambolo) e la storia è talmente strabiliante che non può non funzionare. Non si può dire certo lo stesso del francese “Les rois du monde” di Laurent Laffargue, che oltre ad un bravissimo Sergi Lopez ed un più che buono Eric Cantona (stavolta lo dovevo scrivere per forza), ha davvero ben poco. Non convince praticamente mai, è debole anche quando cerca di spiazzare lo spettatore con la violenza. Ma ha dalla sua il merito di aver portato Cantona a Roma, quindi non riuscirò mai a parlarne troppo male. Mi odio perché al posto di questo film avrei potuto vedere “Mustang”, che a quanto pare è bellissimo (e che probabilmente non riuscirò più a vedere).
Oggi pomeriggio mi sarei rivisto volentieri “Mistress America”, ma una delle cose più belle dei Festival di Cinema è quella meravigliosa invenzione che si chiama passaparola, motivo per cui sono finito in Sinopoli per recuperare quello che ha detta di tutti è uno dei migliori film del Festival: “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Avevano tutti ragione! Film geniale, divertentissimo, che sa quando non prendersi sul serio, e convince in ogni momento. L’ho già detto che è geniale? Perchè lo è, senza ombra di dubbio. Un film di supereroi ambientato a Torbellamonaca: ditemi voi come si fa a non amare il cinema, anche solo per questo. Claudio Santamaria, già voce italiana per i Batman di Nolan, qui ci mette la faccia e diventa un personaggio che ci auguriamo resterà nell’immaginario del Festival e magari anche in quello del cinema italiano recente. Chiudiamo il diario di oggi con l’ultimo film visto in giornata, “The confessions of Thomas Quick”, un documentario un po’ troppo televisivo, che cerca la supercazzola a metà film spiazzando il pubblico. Ma proprio quando sembra aver recuperato un po’ di attenzione, torna nuovamente piatto e lineare. Comunque è assurdo, sia nei contenuti che nella messa in scena, con i veri personaggi davanti alla macchina da presa a raccontare ciò che è successo. Questa Svezia dunque non è solo Ikea e Ibrahimovic, c’hanno pure i serial killer! Su questa bella immagine scandinava corro a mettermi il pigiama e a cullarmi nei sogni in cui vedrò Eric Cantona attaccarmi al petto con il suo celebre calcio volante. Ma questa è un’altra storia…
21 Ottobre.
Eccoci alla terza parte del diario di bordo. Dopo i botti dei primi giorni, il Festival ha subito il suo classico calo fisiologico di metà rassegna: tra ieri e oggi la cosa più bella da segnalare è l’immortale Monica Bellucci, tanto bella sul red carpet quanto brutti sono i film che presenta. La mattinata di ieri si è aperta con la proiezione dell’atteso documentario (che a breve uscirà anche in sala) “Hitchcock/Truffaut”, che chi scrive recupererà sabato prossimo. Il film di Kent Jones omaggia l’intervista più celebre della storia del cinema, dalla quale è derivato il libro di cinema più tradotto e più venduto al mondo. Due registi, un’intervista che diventa libro, un libro che diventa film. Nel cinema c’è poco da fare, tutto alla fine torna al posto giusto.
Il canadese “Ville-Marie” di Guy Edoin, con Monica Bellucci, è a detta di molti il film peggiore della giornata: “tentativo fallito di dramma psicologico”, “Edoin vuole essere Dolan ma non ci riesce”, “film peggiore del Festival”. Citazioni testuali. Al contrario “Angry Indian Goddesses”, film indiano diretto da Pan Nalin, è stato una delle sorprese del giorno: “Elettrizzante e toccante”, “uno dei film per cui vale la pena andare al Festival”, “da non perdere”. Altre citazioni testuali. Lo so, mi immaginate seduto in mezzo ai corridoi dell’Auditorium a raccogliere le voci dei passanti, i commenti che svolazzano da persona a persona, ad allungare l’orecchio in fila per il caffè o a sbirciare con il padiglione auricolare tra i tavolini del bar. Insomma, attenti a ciò che dite, che io scrivo tutto. Siete avvisati.
Per quanto riguarda la giornata di oggi c’è ancora meno da segnalare, in quello che è stato probabilmente (leggasi “sicuramente”) il giorno più moscio dell’intero Festival. Dall’intervista tra Hitchcock e Truffaut ad un’altra intervista, molto meno celebre: quella dell’inviato del Rolling Stone Magazine David Lipsky all’acclamato autore David Foster Wallace, poco dopo la pubblicazione del romanzo cult “Infinite Jest”. Il film “The end of the tour”, di James Ponsoldt, sembra perfettamente in grado di portare sullo schermo la curiosa relazione tra i due, in un viaggio fatto di silenzi e non detti, dai quali poi emergerà tutta la personalità dello scrittore. C’è chi ha parlato di un “viaggio nella solitudine dello scrivere”, ma in realtà quello interpretato da un ottimo Jason Segal è un personaggio che sembra destinato a restare impresso nell’immaginario di questa decima edizione. Per il resto oggi poco altro: presentata la seconda stagione della serie “Fargo”, ma io non ho visto neanche la prima, quindi figuratevi se mi andavo a vedere le prime due puntate della seconda. Ma le solite voci che ho raccolto con il mio acchiappavoci portatile parlano di una seconda stagione ai livelli (bassi) della seconda stagione di “True Detective”. Se volete fidarvi delle voci di corridoio è un problema vostro, io ho solo detto ciò che ho sentito. Lo so, lo so, non è professionale tenere un diario di bordo basandosi su voci dalla fonte dubbia, ma state tranquilli che da domani tornerete a sentire la mia voce (fonte ancora più dubbia dunque). Il mio programma per giovedì, sempre se riuscirò a sentire la sveglia puntata alle 7 e 30, si basa su tre film: “Carol” di Todd Haynes, “Ouragan”, un documentario in 3D sulla potenza distruttrice di un uragano, e “Grandma” di Paul Weitz, che potrebbe essere la sorpresa del giorno. Se fate i bravi scriverò un diario di bordo già domani sera, senza aspettare venerdì. E poi dite che non vi voglio bene. A domani.
22 Ottobre.
E fu così che arrivò il gran giorno di “Carol”, uno dei film più attesi del Festival. E fu così che stamattina mi alzai alle 7 e 30, feci colazione e tutto contento mi diressi verso la metro, per dirigermi in tutta tranquillità alla proiezione. E fu così che trovai la metro B chiusa. E fu così che colto da un momento di illuminazione, escogitai percorsi alternativi fatti di treni, incroci con la linea A e tram, che mi portarono alla proiezione con soltanto dieci minuti di ritardo. Ok, ora passiamo ad un passato un po’ meno remoto. La proiezione di “Carol” è cominciata, incredibilmente, con venti minuti di ritardo, quindi sono arrivato splendidamente in anticipo rispetto all’inizio del film. Quello di Todd Haynes è un film girato con un’eleganza suprema e con tutta probabilità sarà uno dei protagonisti alle prossime nomination agli oscar (regia, attrici e film non dovrebbero restare fuori). La pioggia sui vetri, sguardi lontani alla ricerca di un’ombra, di qualcuno. Un viaggio per rinascere, per scacciare la solitudine e sentirsi finalmente se stessi. Normalmente le storie dei borghesi degli anni 50 non riscuotono il mio entusiasmo, ma il film è talmente ben fatto che non si può proprio discutere: da questo punto di vista devo dire che mi ha interessato molto di più il destino di Theresa (Rooney Mara) che quello di Carol (Cate Blanchett), ma deve essere sempre per quel problema che ho con i personaggi appartenenti alla borghesia medio-alta (che normalmente mi annoiano a morte, vedi “Blue Jasmine”, ma stavolta Cate sa come farsi amare da me: non che a lei interessi così tanto, presumo, ma importa a me, no?). Rooney Mara rinnova così il suo abbonamento al Festival di Roma, dopo aver partecipato qui con “The Social Network”, “Her” e forse anche un altro film che al momento dimentico. Ah, la colonna sonora è davvero meravigliosa. Ciao “Carol”, ci rivedremo agli Oscar.
A causa del ritardo con cui è cominciata la proiezione di “Carol”, ma grazie al quale ho avuto modo di vederlo dall’inizio, ho perso invece i primi venti minuti di “Ouragan”, un incredibile documentario in 3D incentrato sull’uragano Lucy. I primi minuti devo ammettere che ho dormito un po’, causa la stanchezza e lo stress causato dall’Atac (a proposito, grazie per riempire le mie giornate di avventure!), anche perché il film non aveva una trama da seguire con attenzione: insomma, la trama è tipo “l’uragano sta arrivando, prepariamoci, arriva, ecco cos’è successo”. Dopo essermi ripreso dall’abbiocco ho seguito il film tutto d’un fiato: immagini straordinarie, in particolar modo quelle dell’uragano visto dallo spazio, quelle dell’impatto formidabile dell’acqua e la reazione degli animali a tutto ciò (un procione che cerca riparo, mucche sotto i portici allagati, un cane in cerca di salvezza su un’imbarcazione di fortuna). Toccante. E poi l’idea geniale di dare una voce off all’uragano, una voce femminile che parlava di Lucy in prima persona, spiegando che grazie a lei è possibile la vita, l’aria che respiriamo e, beh, questo bellissimo film. Più tardi, dopo un meritatissimo panino al prosciutto, mi sono diretto in Teatro Studio per la proiezione di “Grandma”, di Paul Weitz (regista di “American Pie” e “About a Boy”): una commedia famigliare, in cui nonna lesbica e nipote incinta scorrazzano per la loro città tutto il giorno alla ricerca dei soldi per pagare l’aborto della ragazza. Si ridacchia, ci sono alcuni ottimi spunti e in linea di massima si passa un’ora e venti in totale tranquillità. Oggi come avete visto non ho avuto il tempo di origliare e di raccogliere le voci del nostro amato corridoio: troppo tempo in sala. Domattina, se l’Atac lo permetterà, sarò di nuovo tra le sale del Festival per “Experimenter” e “Alaska”, prima dell’arrivo di Pablo Larrain.
23 Ottobre.
Stamattina nessun problema con i mezzi pubblici, arrivo all’Auditorium alle 8 e 30 e mi trovo davanti Paolo Villaggio: “Ok”, penso, “mezzi pubblici perfetti, Paolo Villaggio in piedi di fronte a me: non devo aver sentito la sveglia e sto ancora dormendo”. Invece no, era tutto vero, e sull’onda di questa già stramba mattinata mi siedo a vedere “Experimenter”. Il film di Michael Almereyda è interessantissimo da un punto di vista nozionistico (praticamente la candid camera applicata a sociologia, psicologia, antropologia e un altro paio di cose che finiscono in “logia”), un po’ meno potente da quello cinematografico. Ad ogni modo resta un film davvero buono, ricco di spunti, che fa continuamente pensare: “Io come mi sarei comportato?”. Perché siamo tutti dei gran fighi finché non ci troviamo nelle situazioni in cui dobbiamo dimostrare la nostra vera personalità. Insomma, molte cose buone, compresa Winona Ryder che è sempre un piacere da vedere. Oggi era anche il giorno dell’ultimo film italiano del Festival, “Alaska” di Claudio Cupellini, un drammone italofrancese dove succedono fin troppe cose, ma che bel film! Elio Germano ci mette come al solito grande intensità, la cosidetta “pancia” (quella che fisicamente non ho, ma sulla quale spesso mi baso per scrivere le cose, che è anche il motivo per cui scrivo così male, no?), inoltre sullo schermo è perfetta la chimica con la bella Astrid Berges-Frisbey (che pensavo fosse la mia ennesima sbandata per un’attrice francese, ma scopro che in realtà è nata in Spagna da padre catalano e madre statunitense, e che l’avevo già amata ai tempi di quel capolavoro di “I Origins”). Il classico film che dopo trenta secondi hai già deciso che ti piacerà: su queste cose è raro sbagliarsi, e capisci che Cupellini ha capito tutto quando sui titoli di coda ascolti “Close Your Eyes” di Micah P. Hinson (che al Festival di Roma ha già marcato presenza nel 2009, quando la sua splendida “Beneath The Rose” faceva da canzone portante al bel film spagnolo “After”). Insomma, tutte queste parentesi e queste disgressioni servono a farvi ascoltare, se non lo conoscete già, il grande Micah P. Hinson, che io adoro. Ma adesso torniamo al cinema, al Festival del Cinema, dove oggi pomeriggio Michel Gondry ha presentato in sordina, zitto zitto, il suo ultimo film “Microbe & Gasoline”. Talmente in sordina che io, dall’alto della mia professionalità, neanche me ne sono accorto (e infatti l’ho perso). A quanto pare dovrò fare affidamento ancora una volta sulle mie amiche voci di corridoio, almeno finchè un giorno qualcuno scoprirà che sono soltanto nella mia testa, per cui finirò i miei giorni internato in qualche bell’istituto psichiatrico. Fino ad allora le voci mi dicono che il film di Gondry è “un’adorabile avventura truffautiana che mette in scena il proprio mondo in modo fresco e tenero” (e se lo dice Emanuele penso di potermi fidare abbastanza, per cui potete fidarvi anche voi). Anzi, dopo aver letto la trama ho una voglia incredibile di vedere questo film, quindi spero decisamente che la santa distribuzione italiana possa metterci una pezza. In serata c’è attesa per l’incontro con il bravissimo regista cileno Pablo Larrain e la proiezione del suo ultimo film “Il Club”, che uscirà in Italia a novembre. Avete presente “Tony Manero”, “Post Mortem” e “No”? Sono tutti film suoi, e sono tutti film bellissimi. Esperando Larrain, weon, sigo escuchando Micah P. Hinson. …Domani il Festival finisce e io sono già malinconico.
24 Ottobre.
E niente. Finisce oggi. Io c’ho provato a consigliare di allungare il brodo di una settimana, con qualche replica in più, con proiezioni on demand per recuperare tutto ciò che si è perso, ma niente, non c’è niente da fare, finisce oggi. Decima edizione che si chiude così, con tanta soddisfazione (quanti bei film!), la solita malinconia di abbracci e saluti (che poi tra due giorni ci si rivede tutti alle solite proiezioni stampa, ma volete mettere?) e così via. Stamattina la mia chiusura personale ha previsto altri due film: il primo, “Legend”, vede Tom Hardy giganteggiare in due ruoli, in un film forse un po’ troppo lungo ma abbastanza godibile: classico esempio di sceneggiatura perfetta per un altro regista (penso a Guy Ritchie: questo era esattamente il film ideale per farlo tornare sui binari del grande cinema, invece delle ultime cagatine che ha girato, ma niente, mai una gioia). Comunque un buon film di genere, sicuramente meglio di “Black Mass”, per fare un esempio recente, ma mai ai livelli di “The Snatch” o “Rockenrolla”. “Hitchcock/Truffaut” invece è un documentario che parla di… indovinate un po’? Che bello, il Cinema raccontato al cinema da coloro che fanno cinema: ho imparato più in un’ora e venti di questo film che in cinque anni al Dams (qui aggiungo una faccina sorridente). Ora tiriamo le somme? Stasera sapremo chi ha vinto il premio del pubblico (ovvero l’unico vero premio che sarà assegnato in questa edizione, come nella passata): sembra quasi certa la vittoria di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, anche se il film migliore del Festival ritengo sia stato “Room”. Non ci sono premi a regia, attori, colonne sonore e cose del genere, ma giochiamo un po’ con i premi che non ci sono e vediamo cosa esce fuori: “Room” quindi, è il mio miglior film. Miglior regia direi Todd Haynes per “Carol”, che si becca anche il premio per la migliore attrice (Cate Blanchett) e per la colonna sonora, la fotografia, le scenografie. Miglior attore direi Tom Hardy per “Legend”, perché è davvero mostruoso, anche se Claudio Santamaria è grande in “Lo chiamavano Jeeg Robot”, al quale invece darei il premio del pubblico (lo so, non posso assegnare io il premio del pubblico, ma stiamo giocando no?). Che altro? Ah, la sceneggiatura: beh, non posso lasciare a mani vuote Noah Baumbach, quindi la migliore sceneggiatura originale è per il suo “Mistress America”, la migliore sceneggiatura non originale invece la diamo a “Carol”. Dimentico qualcosa? Non credo.
Niente, il Festival è finito, la vita continua, un altro badge finisce appeso al braccio della lampada della mia stanza. Ancora qualche anno e potrà crollare. Nel frattempo dall’Auditorium è tutto, linea allo studio. Finalmente domani si dorme.