Recensione “Blaze” (2018)

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Ethan Hawke scrive e dirige un biopic tenero e amaro al tempo stesso, inzuppato di malinconia, confermandosi un autore sensibile e versatile: per questo motivo tutto ciò che tocca è oro, che siano i romanzi che ha scritto, i personaggi che ha interpretato, i film che ha diretto. Qui cambia totalmente genere e registro, raccontando la storia di Blaze Foley, cantautore country ucciso a 39 anni, grazie al quale Ben Dickey si è portato via dal Sundance il premio come miglior attore.

La storia si sviluppa su tre piani temporali: l’intervista alla radio di Townes Van Zandt (altro grandissimo del country), che racconta la sua amicizia con Blaze; un concerto dello stesso Blaze in un locale del Texas e quel che è successo nei mesi successivi e infine il rapporto del musicista con Sybil Rosen, la donna che è poi diventata sua moglie (e con la quale Ethan Hawke ha scritto la sceneggiatura, adattamento del libro di memorie “Living in the Woods in a Tree”).

I colori caldi della fotografia, il suono avvolgente della chitarra acustica, l’accento del sud bastano a calarci perfettamente nel bosco dove Blaze e Sybil si stringono tra ispirazione e tenerezza, nel bar dove la vita nasce, cambia forma e muore attraverso la musica, addirittura in radio, nell’espressività del bravissimo Charlie Sexton. Un film che odora di foglie secche e legno, che fa venire voglia di un camino, di una bevanda calda e di una chitarra acustica pronta a raccontare nuove storie.

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