
Ogni anno passo il mese di luglio nel paese di mia madre e dei miei nonni. Quest’anno sono sceso in Puglia con la consapevolezza che avrei perso la proiezione stampa di Barbie (e anche di Oppenheimer, vabbè), un film che aspetto da oltre un anno per diverse ragioni, Gerwig e Baumbach alla scrittura, prima di tutte. Poi ho scoperto che la proiezione stampa era doppiata, mentre il cinema locale qui, ogni lunedì, proietta i film in lingua originale, quindi tanto male poi non mi ha detto. Il film esce giovedì 21, come sappiamo, dunque devo aspettare un po’ di giorni prima di poterlo vedere. Arriva finalmente lunedì, mi dirigo verso il multisala, abbastanza fuori mano, a dirla tutta, con la certezza di trovare la sala abbastanza vuota: figuratevi se dopo il weekend d’apertura, in un paese di 50 mila anime, qualcuno viene a vedersi il film di Barbie in inglese, penso erroneamente. Arrivo in biglietteria e chiedo un biglietto, al che scopro che era rimasta libera soltanto la prima fila, oltre a un posticino vuoto in piccionaia, unico rimasto dell’ultima fila. Felice per il colpo di fortuna, prendo senza esitare il posto in fondo alla sala e mi ci dirigo, curioso di vederla piena. Ci sono turisti di vari Paesi (giunti fin qui con le navette messe a disposizione da alberghi e BnB, come scoprirò all’uscita), ragazzi, ragazze, bambine, adulti, persone di ogni genere ed età. Lunedì sera, giorno feriale, 35 gradi e una sala cinematografica strapiena a fine luglio: mi guardo un po’ intorno dal mio prezioso sedile in ultima fila e penso che Greta Gerwig abbia già fatto un primo miracolo (non è una sorpresa, di lei avevo ampiamente parlato già dieci anni fa in questo articolo: “Greta Gerwig: la musa del cinema indipendente americano”).
Il secondo miracolo invece riguarda il film stesso: non un capolavoro, parliamoci chiaro, ma il geniale e decisamente riuscito tentativo di tirar fuori un blockbuster dalla penna di due autori assoluti, tra i più importanti dell’ultimo decennio di cinema statunitense: i partner in crime, nel cinema come nella vita, Gerwig e Baumbach, già citati sopra. Il grande equivoco, forse suggerito dalla campagna promozionale o più probabilmente derivato dall’idea di un film sul più celebre pupazzo per bambine, è che si tratti di un film per le più piccole. In realtà Barbie è un film per tutte le età: le bimbe di certo troveranno di che divertirsi, tra gag di vario genere, canzoni da musical (che nascondono un testo più profondo – e ironico – di quanto la melodia possa suggerire) e una palette di colori studiata perfettamente per piacere visivamente alle spettatrici più giovani, anche laddove alcuni scambi possano apparire un po’ più difficili da capire (il concetto di patriarcato, su tutti). Il pubblico più adulto invece, tra palesi e spassose citazioni cinematografiche (2001 Odissea Nello Spazio, Matrix, Playtime, Zoolander e molte altre), oltre ovviamente al racconto, si sentirà pienamente a suo agio di fronte a una storia che fa ridere (tanto) e fa pensare (molto), e che accoglie tra le sue tinte pastello concetti quali la parità tra i sessi, la fragilità maschile e l’aspirazione (o ispirazione) che ogni bambina, ragazza o donna (ma anche ogni uomo, come vedremo), possa davvero puntare ad essere qualunque cosa desideri essere, o quantomeno provarci senza essere ostacolati dalla sua identità, dal suo genere e soprattutto da una società che, seppur molto lentamente, sta cercando di cambiare, anche grazie a un film come questo, chissà.
Il terzo miracolo è appunto questo: da che mondo è mondo l’arte (non solo cinematografica) si pone come obiettivo ultimo quello di cogliere lo zeitgeist, lo spirito del tempo che vive. E un film come Barbie, che può apparire infantile solo a chi giudica le pellicole dai trailer o dai campioni dei luoghi comuni, è uno di quei film che possono segnare un’epoca, possono raccontare ai posteri cos’era il mondo nel 2023 e che direzione stava cercando di prendere. Greta Gerwig e Noah Baumbach sono riusciti dunque a realizzare un film in cui si può riflettere sulla società contemporanea senza perdere di vista l’ironia, il divertimento, la risata, la leggerezza. Se Bowie negli anni Settanta aveva insegnato al suo pubblico che it was ok to be weird, ora Barbie dice alle donne di domani che va bene non sentirsi perfette (anche se, come sottolinea anche la voce narrante Helen Mirren, Margot Robbie non è proprio la persona giusta per esprimere questo concetto). E i vari Ken? Ryan Gosling è esilarante come non mai (ci vediamo agli Oscar), e il suo personaggio, nonostante inizialmente sia un semplice accessorio alla vita perfetta e tutta al femminile di Barbieland, è quello che subisce più trasformazioni, tra mascolinità tossica, machismo, ma anche fragilità e accettazione di sé: è attraverso lui che anche il pubblico maschile avrà la sua fetta di identificazione, a patto di non essere uno di quei maschi alpha, che però al cinema a vedere questi film neanche si avvicineranno (purtroppo, fosse mai che riescano a imparare qualcosa). Ad ogni modo è un film talmente pieno di cose, di dettagli, citazioni, gag, che ad una seconda visione può solo crescere, nonostante sia inevitabilmente un instant cult. Ragazzi, dico a voi: se avete ancora dubbi, date una chance a Barbieland (e alla Kenergy!), potreste rimanere piacevolmente sorpresi e, soprattutto, non preoccupatevi: se lo vedrete nessuno comunque metterà in dubbio la vostra mascolinità, se è questa la vostra remora.


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