
Agosto agosto, estate mia non ti conosco. La stagione estiva, tra picchi di 40 gradi, black out, influenze sconosciute e arie condizionate assassine, sta rotolando pian piano verso Ferragosto, canto del cigno di ogni vacanza, in attesa di riportarmi a Roma e nella sua vita quotidiana, again and again. Il cinema è la solita costante positiva in qualunque periodo di bassa marea e anche in questo capitolo potrete navigare tra un film tedesco del 1932 e il blockbuster d’autore del 2023, un mockumentary belga del 1992 o un anarchico e visivamente bulimico film francese del 1960, oltre a tante altre cosette. In attesa di tempi migliori, c’è sempre del buon cinema però. Poteva andare peggio.
Barbie (2023): Come ho scritto nella recensione, sono dovuto scendere in Puglia prima di poter entrare a Barbieland e devo dire che aver trovato una sala stracolma di turisti e turiste, bambine, mamme, amici, amiche, persone di ogni età, a fine luglio, di lunedì sera, con 35°, per una proiezione in lingua originale è stata una cosa davvero strepitosa. Al di là di questo il film è davvero molto divertente, a tratti geniale, ma non mi aspettavo niente di meno da qualcosa uscita fuori dalla penna di Greta Gerwig e Noah Baumbach (una garanzia di cui sono a conoscenza forse solo un manipolo di cinefili e non la maggior parte delle persone che stanno riempendo i cinema senza aspettative, magari pensando che si tratti di un film per bambine!). Non mi dilungo oltre su Barbie, sia perché ho già scritto abbastanza nella recensione del film, sia perché ormai avrete le orecchie gonfie di opinioni da ogni angolo del pianeta. Ad ogni modo: mi è piaciuto proprio un sacco.
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Il Cameraman e l’Assassino (1992): Film belga totalmente fuori di testa, che mi è stato consigliato da uno dei miei fedeli follower quando, a giugno, chiesi consigli su qualche chicca da vedere, possibilmente del secolo scorso. Il film, diretto e interpretato da Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde, è un mockumentary messo in piedi da questo gruppo di ex studenti appena usciti dalla scuola di cinema di Bruxelles, che è riuscito addirittura a giungere all’attenzione del Festival di Cannes. Una troupe sta girando un documentario su un assassino seriale, filmando le diverse uccisioni, i metodi per sbarazzarsi dei corpi, le varie armi, ma anche la vita privata, tra famiglia e qualche amicizia. Piano piano però anche i membri della troupe cominceranno a entrare nel circolo vizioso, dando il via alla fiera della violenza gratuita che non piacerebbe molto a Nanni Moretti. Originale, folle, alla lunga decisamente un po’ ripetitivo, ma senza dubbio sorprendente. Il taglio documentaristico, oltre alla splendida fotografia in bianco e nero, sono soltanto punti a favore di un film che è diventato un cult in patria sin dal momento della sua uscita.
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36 Quai des Orfèvres (2004): Parigi e polizieschi, quando sono messi insieme, vanno sempre dannatamente d’accordo. In questo polar dai forti echi shakespeariani, Daniel Auteuil e Gerard Depardieu sono infatti il corrispettivo di due principi in lotta per la poltrona da re: entrambi sono sottocapi del questore della polizia di Parigi, ormai prossimo a lasciare vacante la sua poltrona. Il suo successore sarà colui che riuscirà a mettere le manette ad una banda di rapinatori che da mesi sta saccheggiando furgoni portavalori tra le strade della Ville Lumiere. Succede davvero di tutto in così poco tempo che non si ha nemmeno il tempo di dare un morso a un panzerotto e, nonostante un finale un filo prevedibile, come poliziesco è davvero una bella bomba: fotografia e messa in scena sono ottime, così come gli interpreti (tra cui c’è anche Valeria Golino). Da recuperare.
•••½
Vampyr (1932): Film di Carl Theodor Dreyer, a chiusura di quella trilogia ideale (con Nosferatu di Murnau e Dracula con Bela Lugosi) che avrebbe dato il via all’intero filone cinematografico sui vampiri. Rispetto ai due film precedenti però Dreyer si discosta di netto, a cominciare dal romanzo dal quale è tratta la storia: non più il capolavoro di Bram Stoker, ma le novelle di Joseph Sheridan Le Fanu. Il viaggiatore Allan Grey, giunto di sera nel villaggio di Courtempierre, ha sin da subito a che fare con qualcosa di paranormale: di notte gli appare l’immagine di un uomo anziano, che ha un pacchetto per lui da aprire soltanto alla morte del vecchio. Gray si incammina così per il villaggio, dove si troverà circondato da ombre che danzano e vagano, oltre ad altre presenze inquietanti. Alla fine giungerà nella villa del vecchio che gli era comparso prima e, trovandolo morto, apre finalmente il pacco a lui destinato: è un libro sul vampirismo. Per il resto del film il buon Allan dovrà darsi da fare per impedire ai vampiri locali di prendere la vita delle figlie del patriarca. Rispetto ai suoi colleghi contemporanei (come lo stesso Murnau, ma anche Lang ovviamente), le ombre di Dreyer non esprimono particolari emozioni volte a scioccare chi guarda, sono semplici stratagemmi visivi per giocare con lo spettatore (che nel 1931 doveva essere davvero molto meravigliato e spaventato davanti a siffatti effetti speciali!). Onirico nella messa in scena, innovativo in alcune strepitose scelte registiche, assolutamente originali per un film di quell’epoca (la soggettiva del cadavere mentre gli viene inchiodata la bara è stupefacente). Forse poco coinvolgente in alcuni passaggi, visto anche che si basa più sull’atmosfera che sulla narrazione vera e propria, ma senza dubbio un’esperienza ricca di fascino: grande film.
•••½
Begin Again (2013): Uscito in Italia con il non felicissimo titolo Tutto può cambiare, fu la conferma (di cui forse neanche c’era tanto bisogno) che John Carney è uno di cui ci si può fidare: se dopo una specie di capolavoro come Once mi riesci a tirar fuori un altro film così bello, seppur diverso nelle tante similitudini, allora sei davvero uno da prendere e mettere in un fantomatico pantheon di registi a cui voler bene (cosa tra l’altro confermata dal successivo Sing Street, del 2016). In una New York raramente così magnifica e, per certi versi, accogliente, si incontrano l’ispirata cantautrice triste Keira Knightley e il geniale produttore con la vita a pezzi Mark Ruffalo: da due persone che in comune hanno praticamente soltanto la musica, nasce la magia di un film dolce, di quelli che riescono ad abbracciarti, belli come una serata d’inverno sul divano, con il plaid addosso e una calda tazza d’orzo in mano. Inoltre, per la cronaca, se mi fosse permesso poter avere un appuntamento con un qualunque personaggio della storia del cinema, penso proprio che la mia scelta cadrebbe sulla Gretta di Keira Knightley, che in questo film è la cosa che più si avvicina alla mia idea di perfezione, ma questo probabilmente è un altro discorso.
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Tutti Vogliono Qualcosa (2016): Visto che il mese scorso avevo visto Dazed and Confused, mi sembrava una buona idea dare seguito a quella visione con questo che lo stesso Richard Linklater ha definito il sequel ideale di quel film del 1993. Tutti vogliono qualcosa è un film a cui voglio bene, da cui torno spesso: in 7 anni lo avrò già visto almeno cinque volte, ma stavolta devo dire, con in testa la visione fresca di quel film di trent’anni fa, mi è sembrato meno articolato e un po’ meno interessante (ma la colpa è proprio di Dazed and Confused, che è davvero troppo bello). La realtà è che è comunque un film spassoso, molto meno superficiale di quello che mostra in apparenza (i tre giorni prima dell’inizio del college vissuti dai componenti della squadra di baseball locale, tra feste, donne, alcol e sogni di mezza estate), pieno di belle vibrazioni, ottima musica e scene indimenticabili. Richard Linklater è un altro di quelli da mettere in quel famoso pantheon di registi affidabili, anzi forse Linklater potrebbe addirittura essere il padrone di casa di quel pantheon.
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Zazie nel metrò (1960): Louis Malle due anni prima esordiva dietro la macchina da presa con quel gioiello di Ascensore per il patibolo, lasciandoci in dono l’immagine folgorante di Jeanne Moreau in lacrime sotto la pioggia, con in sottofondo le note di Miles Davis. Due anni dopo quel film, Malle adatta per lo schermo un romanzo di Raymond Queneau, in cui una vispa ragazzina fa visita allo zio parigino per un lungo weekend, in cui le accade un po’ di tutto, tra gag prese dal cinema muto, situazioni paradossali in pieno stile Hanna-Barbera e sequenze dove in ogni angolo sta succedendo qualcosa. Le scene sono gonfie di personaggi, spesso uno addosso all’altro e questo non aiuta ad evitare una costante sensazione di soffocamento (sia fisico che visivo). Un film anarchico, che sfugge ad ogni regola per mostrare una Parigi caotica, variegata come i pazzi e allucinati personaggi che la popolano (tra cui Philippe Noiret, che qui è davvero il sosia francese di Paolo Villaggio). In alcune scene è un film irresistibile, in altre sembra davvero una scemenza: la verità è probabilmente nel mezzo.
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