
Un capolavoro del cinema giapponese, un film del Bhutan, un’imponente produzione statunitense, un indie movie made in USA, un film britannico, un cult del cinema italiano, un regista tedesco in Inghilterra, un film indipendente italiano che strizza l’occhio al cinema di Hong Kong. Quanto si viaggia bene a bordo di questo treno cinefilo, si gira il mondo, passando per i luoghi più lontani che posso immaginare fino a tornare a casa, a Roma. E pensare che qualche mese fa mi hanno detto addirittura di essere “cinematograficamente chiuso” (sic) perché non volevo guardare l’ultimo Mission Impossible. LOL. Novembre è forse il mese più triste dell’anno (o era gennaio? Boh), ma grazie al cinema possiamo ancora aggrapparci a qualcosa di più o meno felice, che per un paio d’ore ci tiene lontani dalle terrificanti notizie che arrivano, ormai quotidianamente, dal mondo.
Ran (1985): Akira Kurosawa ottiene la sua unica candidatura agli Oscar (sì, lo so, è assurdo) con l’ennesimo straordinario dramma storico della sua incredibile filmografia. Il patriarca di una potente famiglia decide di ritirarsi e lasciare il suo feudo al primogenito, con il sostegno degli altri due figli. Da questa decisione scaturisce però una guerra fratricida che metterà a rischio il nome e il potere della casata. Liberamente ispirato al Re Lear di Shakespeare, Ran è una goduria per gli occhi, tra colori che danzano e combattono, scene imponenti e coreografie magnifiche. L’Oscar alla fine fu vinto per i costumi, inevitabilmente. Se Shakespeare fosse nato in Giappone, molto probabilmente avrebbe scritto Re Lear esattamente così. Tra sangue e morte, non c’è più nessun dio per questi esseri umani: che finale eccezionale, che film magnifico.
••••½
La Coppa (1999): Questo di Khyentse Norbu è il secondo film del Bhutan che ho visto in vita mia (addirittura entrambi nel giro di un mese, come forse avete letto qui). In un monastero indiano, due monaci, oltre a studiare la via del buddismo, amano a tal punto il calcio da sgattaiolare di notte in un bar per vedere le partite dei Mondiali. Cacciati dal locale per la troppa confusione, non hanno altra soluzione per vedere la finale tra Francia e Brasile se non quella di ottenere il permesso di trasmetterla nel monastero: il problema è che non hanno la tv… Film piuttosto acerbo, sia nella messa in scena che nella recitazione, ma ha grande cuore e, in alcune sequenze, appare piuttosto ispirato. Mai nella vita mi sarei aspettato di vedere il faccione di Gigi Di Biagio in un film del Bhutan, ma il cinema è anche questo: è una Forza che ci circonda, ci penetra, mantiene unita tutta la Galassia (cit).
•••
Napoleon (2023): La migliore recensione che ho letto sul nuovo film di Ridley Scott incentrato sul dittatore francese è un gioco di parole sul titolo: NAPoleon (in inglese nap è “pennichella”). Quello di Scott è infatti un imponente mattone di due ore e mezza, talmente focalizzato nel raccontare le debolezze di Bonaparte da rendere piuttosto superflue le lunghe sequenze di battaglia. Che poi vedere le sequenze di battaglia (con i soldati ricostruiti in digitale) due giorni dopo aver visto Ran di Kurosawa ti fa capire come certo cinema oggi sia diventato ormai qualcosa di assolutamente freddo e poco interessante. Io lo capisco che usare gli effetti digitali sia più economico che pagare migliaia di comparse, ma forse qualche produttore dovrebbe cominciare a capire che il risultato è brutto. Al di là di questo, Ridley Scott balla con noncuranza tra il sublime e il ridicolo, sta a voi capire quanto si avvicini da un lato invece che dall’altro. Mi sarebbe piaciuto giudicare anche la grandezza di Joaquin Phoenix, ma la distribuzione italiana ha ben pensato di proiettare alla stampa il film doppiato, privandoci forse dell’unico motivo per cui valeva la pena spostarsi dall’altra parte di Roma per stare due ore e mezza dentro a una sala. Scott il risultato lo porta comunque a casa, perché il mestiere lo conosce, però forse ha sprecato una bella occasione.
•••
Actual People (2021): Il film d’esordio di Kit Zauhar, anche protagonista del film, è il classico indie USA a basso budget che ha più di un debito con il movimento mumblecore. La protagonista, statunitense di origini asiatiche, deve barcamenarsi tra gli ultimi esami universitari e una vita sentimentale piuttosto burrascosa, dopo la fine di una relazione importante e l’illusione di nuovi amori che però faticano a prendere forma. C’è tanta naturalezza in questo film, è credibile in ogni suo centimetro e Kit Zauhar non si spaventa a mettere a nudo tutte le debolezze della sua protagonista in uno sfogo finale che ho trovato decisamente commovente. L’ennesima dimostrazione di quanto fossero meravigliosi, seppur pieni di problematiche, gli anni dell’università. Quanta nostalgia per quelle feste, quanta tenerezza nell’inseguire le nostre cotte giovanili. Quanto si stava meglio quando si stava peggio eh? Il film è più che godibile, a patto che vi piacciano fiumi di dialoghi spontanei e ragazzi e ragazze in cerca di un posto nel mondo: da queste parti, li amiamo molto. Il film è su Mubi.
•••½
The Old Oak (2023): Ma quando Ken Loach non ci sarà più, chi li farà più i film di Ken Loach? Si tratta di una domanda più seria di quel che crediate, visto il baratro in cui sta precipitando anno dopo anno il nostro mondo (o forse sarebbe il caso di dire giorno dopo giorno, visto che siamo quotidianamente bersagliati da disumanità dilagante). Stavolta il regista britannico, da sempre vicino alle cause degli “ultimi”, incentra il racconto in un piccolo villaggio del nord dell’Inghilterra, dove l’unico pub del paese è il legame, a tratti debole, tra gli abitanti del posto e un gruppo di rifugiati siriani, da poco arrivato in città. Come al solito Loach mette al centro della storia l’umanità, cercando di creare un ponte tra le persone, consolandoci come un abbraccio nella tempesta, come un plaid di lana soffice durante l’inverno più rigido. Nel mondo di oggi, il suo cinema è una necessità, sono storie che ho bisogno di vedere, in cui a tratti mi piacerebbe vivere e se è vero che questo potrebbe essere il suo ultimo film, torna attuale la domanda di apertura: chi li farà più i film di Ken Loach?
•••½
Sogni d’Oro (1981): Cosa c’è di meglio di un Festival di Cinema nel tuo quartiere, a 200 metri da casa tua, dove puoi vederti – gratuitamente, tra l’altro – la versione restaurata di un film di Nanni Moretti oltre ad avere l’occasione, il privilegio anche, di ascoltare il regista parlare del suo cinema per un’oretta? Sono cose che, per fortuna, accadono a Garbatella (al Palladium Film Festival): è stato bellissimo rivedere questo film a distanza di tanto tempo, ridere delle sue nevrosi, sentirsi compresi in alcune, memorabili, linee di dialogo: “Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!”. La storia di un regista insicuro, nevrotico, frustrato, ma anche incompreso dal mondo che lo circonda: potrebbe essere la storia di tanti di noi, anche se esasperata all’ennesima potenza. Bellissimo.
•••½
Il Prigioniero del Terrore (1944): A volte mi capitano sotto gli occhi film di cui non so assolutamente nulla, mi basta però leggere il nome del regista per convincermi subito a dargli una chance. Il regista in questione è Fritz Lang, che non sbaglia praticamente mai un film. Anche questo non sarebbe male se non fosse che non amo particolarmente le storie di spionaggio (nonostante si tratti dell’adattamento di un romanzo di Graham Greene, che pochi anni dopo scrisse Il Terzo Uomo di Carol Reed). Nella splendida sequenza iniziale vediamo un uomo finalmente libero di tornare alla vita dopo un periodo passato in un istituto psichiatrico. Già l’incipit ci pone davanti a mille domande e l’inizio è senza dubbio promettente, anche a livello visivo. Poco dopo il protagonista si trova coinvolto in un’avventura più grande di lui, tra spie naziste, sedute spiritiche e gli inevitabili personaggi doppiogiochisti. Alcune sequenze sono strepitose (parliamo sempre di Fritz Lang oh!), come ad esempio la già citata apertura e la bellissima scena della seduta spiritica, splendidamente giocata su una splendida fotografia e un equivoco che, qualche anno più tardi, sarebbe stato inevitabile etichettare come “hitchcockiano”. Nonostante un buon inizio e un’interessante riflessione sull’eutanasia (il film è del 1944!), la storia si perde un po’ per strada fino a raggiungere frettolosamente il finale. Da Lang mi aspettavo qualcosa di più, anche in termini di messa in scena.
••½
Non Credo In Niente (2023): Ho sentito parlare per la prima volta di questo film un mesetto fa, quando è stato scelto da una delle partecipanti del progetto Film People. Ero molto incuriosito dalla storia e quando ho saputo che sarebbe stato proiettato al già citato Palladium Film Festival, non ho esitato a percorrere nuovamente quei 200 metri che mi separano dalla sala per vederlo. C’è Roma di notte, il fumo di tante sigarette, le luci della città, dei locali, dei bar, ma soprattutto ci sono quattro ragazzi, tutti con ambizioni artistiche, costretti a scendere a patti con la vita, la realtà e la disillusione del quotidiano. L’esordio di Alessandro Marzullo è un lavoro ambizioso, girato in pellicola, con uno sguardo a Cassavetes e l’altro a Wong Kar-wai, stracitato nella fotografia notturna, in quei tunnel di Lungotevere che sembrano usciti fuori da Angeli Perduti e nell’uso del colore come veicolo per le emozioni dei personaggi. E poi c’è uno “zozzone” notturno, il furgoncino dei panini, a legare le storie, come il chioschetto di Hong Kong Express o addirittura il Wolfman Jack di American Graffiti. C’è un’impronta autoriale evidente quindi, forse anche troppo, quasi a voler distrarre da una sceneggiatura un po’ zoppa, che non crea empatia con la frustrazione dei suoi protagonisti, che avrei condiviso volentieri se solo me ne avessero dato modo. Niente male comunque: Marzullo va tenuto d’occhio, farà grandi cose nel momento in cui unirà la splendida estetica ad un impianto narrativo allo stesso livello. Bravi.
•••


Lascia un commento