
Da qualche tempo è sorta la questione se il cinema indipendente americano è realmente così indipendente come vogliono farci credere: l’indie-movie, per definizione, è il film che non è costretto a dipendere dalle grandi case di produzione, che realizza buoni (e talvolta eccellenti) film senza aver bisogno di grandi budget, ma solo con le idee. Ormai però gli studios hanno capito che il cinema indipendente ha dalla sua una fetta di pubblico non indifferente e si sono regolati di conseguenza, rendendo l’indie-movie un vero e proprio genere cinematografico (basti pensare che la Warner Bros, per dirne una, ha una divisione che produce soltanto film a basso budget, ma comunque non indipendenti nel senso stretto del termine). E allora, dove è finita la vera anima del cinema indipendente americano? La risposta va cercata nel mumblecore. Si tratta di un sottogenere del cinema indipendente, caratterizzato (ovviamente) da produzioni a basso budget e da attori solitamente poco conosciuti, le cui storie sono fortemente incentrate su un dialogo naturale e spontaneo. “Naturalezza” (nei dialoghi ma anche nella messa in scena e nelle interpretazioni) è la parola chiave del genere mumblecore. Le sue caratteristiche principali sono le ambientazioni reali, in cui anche gli interni come bar o appartamenti sono reali e non ricostruiti; il protagonista è spesso un personaggio tra i venti e i trentanni, mentre il tema del film è in molti casi incentrato sulle relazioni sociali dei protagonisti, sulle insicurezze e le difficoltà della generazione post-universitaria. Talvolta non c’è una struttura narrativa chiara, e questo rende i film mumblecore imprevedibili. Il bianco e nero della fotografia (ma solo in alcuni casi) e la colonna sonora ricercata sono altre caratteristiche di questo genere, che trova le sue radici nella nouvelle vague francese (in particolare nei film di Eric Rohmer e in alcuni di Truffaut) e in un certo senso ha come fratello maggiore “Manhattan” di Woody Allen, che a parte il budget, condivide molte delle caratteristiche fondamentali del mumblecore. In un certo senso, si potrebbe quasi dire che il mumblecore è la street photography applicata al cinema.
Nonostante si possano definire mumblecore film dello scorso secolo come “Girlfriends” di Claudia Weill, “Stranger than paradise” di Jarmusch, per alcuni versi “Baci rubati” di Truffaut o il già citato “Manhattan” di Allen, e sebbene il genere cominci a prendere forma negli anni 90 con le pellicole di Linklater “Slacker” e “Before Sunrise”, il primo vero e proprio film mumblecore è per tutti “Funny Ha Ha” (2002) di Andrew Bujalski, che ha anche coniato il termine mumblecore durante un’intervista per Indiewire. Si comincia a parlare di un vero e proprio movimento, visto che molti attori e registi di questi film appaiono nei film dei colleghi, collaborano con loro e promuovono il lavoro degli altri. Oltre a Bujaski, i registi che sono stati associati al mumblecore sono Lynn Shelton (“Humpday”), Aaron Katz (“Dance Party USA”, “Quiet City”) , Joe Swanberg (“Lol”), Alex Holdridge (“In search of a midnight kiss”) e ovviamente i fratelli Duplass (“Baghead”, “Cyrus”), tra i pochi a farsi un nome anche fuori dai confini statunitensi. A rilanciare il movimento ci ha pensato lo scorso anno Noah Baumbach con il meraviglioso “Frances Ha”, che ha riscosso consensi a livello internazionale e ha reso Greta Gerwig la musa del mumblecore. Il film di Baumbach ha ridato linfa vitale a un genere che per troppo tempo è rimasto confinato alle categorie più nascoste dei festival, e che raramente ha visto la via della sala cinematografica (almeno per quel che riguarda l’Europa e in particolare l’Italia).
In Europa che succede? Non mancano gli emuli dei colleghi americani e gli “adepti” a questo movimento cinematografico (che per esempio in Germania esiste dal 2009 e si chiama proprio “Berlin mumblecore movement”, dotato addirittura di un proprio manifesto, il “Sehr Gutes Manifest”). Visto che parliamo di Germania non possiamo non citare il magnifico “Oh boy”, diretto da Jan Ole Gerster, uscito lo scorso anno anche in Italia. Altri esempi europei possono essere il bellissimo film danese “Dark Horse” di Dagur Kari, oppure lo spagnolo “En la ciudad de Sylvia” di José Luis Guerin o per certi versi l’inglese “Bomber” di Paul Cotter. Germania a parte, il mumblecore non è tuttavia riuscito a prendere piede in Europa, altro motivo per cui i film statunitensi di questo genere trovano difficilmente il modo di arrivare fino alle nostre sale. Magari, con l’arrivo di “Frances Ha” (uscirà in Italia a maggio), qualcosa cambierà. Staremo a vedere.
(Se vi interessa approfondire l’argomento, ecco una lista piuttosto interessante di film mumblecore – dal 2002 al 2012 – stilata dal sito rateyourmusic.com)

Un commento Aggiungi il tuo