Recensione “Perfect Days” (2023)

C’è una canzone di Simon e Garfunkel che si chiama I Am a Rock. Non è inclusa nella splendida selezione musicale del protagonista, Hirayama, decisamente più propenso al rock anni 70, ma il testo di quella canzone mi ha fatto pensare molto al meraviglioso personaggio del nuovo film di Wim Wenders. Nella canzone del duo statunitense, il protagonista è un uomo solo, che ha allontanato il mondo da sé per costruirsi delle metaforiche mura (I’ve built walls / A fortress deep and mighty / That none may penetrate) tra le quali proteggersi grazie ai libri e alla cultura (I have my books / And my poetry to protect me / I am shielded in my armor / Hiding in my room safe within my womb / I touch no one and no one touches me / I am a rock I am an island).

Hirayama, rispetto al personaggio della canzone, appare meno spaventato dal mondo, più sereno, decisamente meno rancoroso. È un uomo solo e solitario, silenzioso, che però si è creato una routine settimanale pressoché perfetta (almeno per lui), nella quale ha racchiuso tutta la sua felicità: si alza al mattino presto, cura le sue piantine, beve un caffè dal distributore automatico sotto casa, va a lavoro (pulisce le toilette pubbliche della città) e poi, una volta finito il turno, prende la bicicletta e attraversa la città per andare prima in un bagno pubblico a lavarsi, poi in una libreria, o dal laboratorio di fotografia, poi in una tavola calda o in un intimo ristorante, per poi chiudere la giornata nel letto, con qualche pagina di un libro. Quella di Hirayama è una routine collaudata, che lo rende felice, tranne quando qualche personaggio esterno si inserisce nella sua vita, alternando i suoi programmi (una cosa che sembra dar più fastidio a noi spettatori che al protagonista, che sembra capace di abbracciare qualunque lieve cambiamento senza gravi ripercussioni). In qualche modo Hirayama sta a Wim Wenders un po’ come Jeanne Dielman stava a Chantal Akerman, nonostante si tratti di due routine, due universi (e soprattutto due film) completamente diversi.

I Perfect Days del protagonista di Wim Wenders appartengono a un mondo quasi scomparso, un mondo fatto di semplicità e pazienza, di musicassette, di libri tascabili da portare ovunque, di fotografia in pellicola. Tra una canzone di Lou Reed e una di Patti Smith (passando per Van Morrison, gli Animals, i Kinks e altri), le giornate di Hirayama, nonostante un lavoro umile e una vita solitaria, scorrono piene di ricchezza interiore, di piccole cose, che da sempre sono sinonimo di felicità. Ma dietro un uomo apparentemente sereno c’è anche un passato difficile, che noi percepiamo appena e che lui forse avrebbe bisogno di risolvere, al di là dei suoi sogni in bianco e nero, tra i ponti e i parchi di una Tokyo tanto cara al regista, meno frenetica di quella che potevamo immaginare, che qui appare accogliente in ogni suo angolo. Impossibile vedere Perfect Days senza pensare a Ozu, amatissimo da Wenders, che con questo film omaggia la “complessa semplicità”, se mi passate l’ossimoro, del cinema del maestro giapponese. C’è tanta umanità e bisogno di pace interiore da coprire, forse superficialmente, tutto il dolore che c’è sotto, che esce fuori lentamente, con la stessa pazienza con cui il protagonista si occupa delle meraviglie tecnologiche che deve igienizzare.

La canzone di Simon e Garfunkel finiva con queste parole: And a rock feels no pain / And an island never cries. Se Hirayama è dunque una roccia, o un’isola, lo scoprirete solo attraverso due ore di straordinario cinema, in uno dei film più belli dell’anno.


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