Recensione “Past Lives” (2023)

C’è una parola coreana, in-yun, che si potrebbe tradurre grossomodo come “provvidenza” o “destino”, inteso esclusivamente come quello che lega due persone. Se camminando per strada sfiorate accidentalmente il vestito di un’altra persona, quello è in-yun, ovvero l’incontro tra due esseri umani che, in qualche modo, si sono già incrociati nelle loro vite passate e che ora si sono ritrovati, anche se solo il tempo di un respiro. Dunque non è possibile controllare chi entra nella nostra vita, né tantomeno chi vi rimane: è tutto governato da strati di in-yun. Su questa affascinante premessa si dipana il folgorante esordio cinematografico di Celine Song, un’opera prima sconvolgente, ispirata a una vicenda autobiografica vissuta dalla stessa regista, che sembra quasi condensare la trilogia dei Before di Richard Linklater in un unico film, anche se qui i protagonisti non prendono in mano il loro destino, piuttosto lo subiscono.

I dodicenni Nora e Hae Sung, legatissimi amici d’infanzia, si ritrovano improvvisamente separati quando la famiglia di Nora decide di trasferirsi a vivere in Canada. Oltre un decennio dopo si ritrovano online, ma è soltanto 24 anni dopo che riusciranno finalmente a incontrarsi, quando il ragazzo, ormai uomo, andrà a passare una settimana a New York per rivedere la sua amica di un tempo, confrontandosi con lei sulle loro vite, sul destino, sull’amore e su tutte quelle piccole scelte che influiscono sul futuro.

In Past Lives c’è un discorso profondo sull’identità, sulla figura di Nora, che non si sente più coreana (ha anche occidentalizzato il suo nome) ma non può neanche definirsi statunitense, permettendo a due lingue, due culture e due parti così importanti della sua vita – le sue radici, ma anche i suoi frutti – di coesistere, di legare, con lei comunque al centro di tutto, di tutti, che tenta di dosare lo spazio da concedere all’una e all’altra. Da un lato c’è un uomo, l’unico ad aver conosciuto Nora prima che diventasse la versione statunitense di se stessa, dall’altro c’è poi la sua vita presente, che non conoscerà mai quella bambina di 12 anni che sognava di vincere il Nobel: nel mezzo, una scena al bancone di un bar che strazia l’anima, chiunque sia il personaggio con il quale si decida di entrare in empatia. Come canta Leonard Cohen nel primo atto del film, there’s no way to say goodbye, che si tratti di Hae Sung, del suo passato o di un’intera parte di sé. In questo film meraviglioso, non c’è veramente modo di dire addio.


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