Capitolo 417: Il Mese dei Record

"I like Springsteen" in "My Science Project"

Ottobre ci saluta con il mio nuovo record personale di film visti durante un intero mese (o almeno da quando tengo il conto su Letterboxd, ovvero il 2014): ben 33, uno in più rispetto allo scorso anno, due in più rispetto a due anni fa (anche se rispetto al 2024, l’anno dei record, sono indietro di 20 film). So che queste statistiche interessano solo e soltanto me, quindi passiamo oltre. Ottobre è anche il mese che mi ha portato a fare la comparsa sul set de La Resurrezione di Cristo di Mel Gibson, ma non posso dire nulla purtroppo, se non che ho visto il regista in carne e ossa (l’esperienza è stata comunque davvero bella). Nel capitolo di oggi trovate un recupero fondamentale, nonché qualche horror qua e là, giusto per onorare in qualche modo Halloween (non è vero, è un puro caso in realtà). E voi, qual è il film più bello che avete scoperto a ottobre?

La Maschera della Morte Rossa (1964): Tratto da due racconti di Edgar Allan Poe, il cult di Roger Corman con Vincent Price è un’opera a tratti barocca, decisamente molto colorata e visivamente affascinante (le scenografie e i colori sembrano usciti da un sogno di Mario Bava). Price interpreta un principe sadico, devoto a Satana ed è convinto, durante un’epidemia denominata “Morte Rossa”, di poter tenere fuori il contagio rinchiudendosi nel suo castello con un manipolo di nobili degenerati. Invece di mettersi a fare il pane o la pizza come abbiamo fatto noi durante il lockdown, loro si mettono a fare carnevalate, feste e scontri mortali: non finirà proprio benissimo. Girato con quattro soldi ma con un gusto visivo pazzesco, il film è un trionfo di velluti rossi, fumi, specchi e dissolvenze. Corman riesce a costruire un’atmosfera da incubo che funziona piuttosto bene, dove ogni risata di Vincent Price ha un che di piacere perverso. Il risultato è una parabola morale travestita da horror, un racconto sul potere, la colpa e l’inevitabile resa dei conti con la Morte, che arriva sempre, tra l’altro vestita meglio di tutti. Da recuperare.
•••½

Paranormal Activity (2007): Ovvero come esplorare a fondo tutte le possibilità offerte dal digitale. Il film di Oren Peli, infatti, mostra perfettamente cosa può succedere quando si ha una buona idea e una videocamere digitale in casa: si può fare un film in dieci giorni, spenderci circa 15mila bigliettoni e incassare alla fine quasi 200 milioni di dollari in tutto il mondo. Con la tecnica del mockumentary, una coppia decide di riprendere ciò che accade di notte mentre dorme, visto che ormai da tempo in casa si sentono strani rumori e al mattino sembra che alcuni oggetti si siano spostati da soli. Ovviamente la macchina da presa registrerà diversi fenomeni inquietanti. Nella sua semplicità è un film che funziona perfettamente, sa giocare con effetti visivi e sonori (il rimbombo che segna l’avvicinarsi dell’entità è un’idea splendida) e alla fine ti lascia anche con un briciolo di inquietudine. Niente male.
•••½

Fino all’Ultimo Respiro (1960): Il giorno dopo aver visto Nouvelle Vague di Linklater, che racconta la lavorazione dell’esordio cinematografico di Godard, è praticamente impossibile non rivederlo. E così ho fatto ed è stato come quando rivedi un amico che hai salutato da tanti anni. Mi sono perso nel fascino di un cinema spavaldo e libero, che racconta la storia di questo assassino dall’aria scanzonata, una canaglia innamorata di una bella americana. Belmondo corre per le strade di Parigi come se il mondo fosse la sua scenografia personale, la macchina da presa di Godard lo segue a spalla, nervosa, viva, mentre dialoghi rapidi, citazioni continue e improvvisazioni creano un ritmo che oggi sembra naturale, ma all’epoca era rivoluzionario. Jean Seberg è splendida, con quell’aria distratta e insieme magnetica che rende ogni scena di coppia un piccolo miracolo di stile, di spontaneità. Per me è sempre stato un film che fa venire voglia di correre per le strade di Parigi con la videocamera al seguito: è un film fresco, è elegante, è anarchico. Godard infrange le regole e ti fa sentire quasi complice. Inoltre, rivederlo dopo aver visto il film di Linklater è ancora più bello, credetemi. Quando uscirà, è un’esperienza che consiglio davvero di provare.
••••½

Ritorno alla Quarta Dimensione (1985): Sono un ragazzo semplice, se so che in un film viene citato Bruce Springsteen, io me lo devo vedere. Ed è così che, dopo aver saputo da un amico che c’era una scena in cui al protagonista viene chiesto cosa gli piace e lui risponde “I like Springsteen”, mi sono sorbito questo film per ragazzi anni 80, con un Josh Brolin dei poveri che trova per caso un oggetto capace di muoversi tra diverse epoche, materializzando così oggetti ed esseri viventi dal passato e dal futuro. Il suo professore di scienze hippie è naturalmente Dennis Hopper, che ad inizio film si attacca al respiratore d’ossigeno, anticipando in qualche modo uno dei suoi ruoli più iconici (quello che vedremo pochi anni dopo in Velluto Blu di Lynch). Quest’opera prima di Jonathan R. Betuel, che in carriera dirigerà poi soltanto un altro film (con Whoopi Goldberg e un T-Rex antropomorfo), è uno di quei classici film destinati al mercato delle videocassette, un goffo tentativo di cavalcare l’onda dei film per ragazzi del decennio più florido di sempre, da questo punto di vista. Il film parte bene, citazione del Boss a parte, ma nell’ultima mezzora svacca parecchio, tra effetti speciali a dir poco artigianali e una serie di eventi senza capo né coda. Simpatico però, quello sì.
••½

Fanny e Alexander (1982): Che goduria questo film. Avrei dovuto guardarlo ai tempi dell’università per un esame su Ingmar Bergman, ma la durata di 3 ore mi aveva sempre tenuto alla larga. Poi, durante la Festa del Cinema, ho chiesto a Richard Linklater quale fosse il suo film preferito e quando ho avuto la sua risposta, che come avrete capito era proprio Fanny e Alexander, ho capito che era arrivato il momento di recuperarlo per bene. In realtà, la versione che ho visto non è quella di 3 ore, montata per il cinema, ma quella originale di 5 ore destinata al piccolo schermo, due ore in più di bellezza. La storia è osservata dal punto di vista dei due bambini che danno il titolo al film e racconta più o meno ciò che accade dopo la morte del padre, direttore di un teatro locale là in Svezia, con la madre che convola nuovamente a nozze, stavolta con un austero pastore protestante (un bastardo della peggior specie). Piccolo dettaglio: Alexander vede la gente morta, con qualche annetto di anticipo rispetto a Il Sesto Senso. Al di là dello splendore estetico (Oscar per scenografia, fotografia e costumi, oltre che per il miglior film straniero) e delle blasfemie che Bergman mette in bocca ad Alexander (quindi a se stesso, visto che la storia ha diversi riferimenti autobiografici), è un film enorme, che sa coinvolgere per il modo in cui riesce a costruire la vicenda, fino al climax. Incredibile che nella versione cinematografica abbiano tagliato la scena in cui lo zio dei bambini si presenta dal vescovo ricoprendolo di minacce e insulti, una scena che da sola ti fa venire voglia di alzarti in piedi ad applaudire per 92 minuti. Che bello sapere che c’è sempre un capolavoro del passato pronto a stupirti, là da qualche parte.
•••••

Ring (1998): Era la prima volta che lo vedevo, anche se conoscevo bene la storia, avendo visto il remake americano ai tempi (quello con Naomi Watts). Il film di Hideo Nakata è un horror piuttosto scarno ma millimetrico nella costruzione della paura, basato tutto sull’attesa e sull’atmosfera. Inutile raccontarvi la trama, no? La videocassetta maledetta, i sette giorni di tempo e quella telefonata puntuale come una sentenza: niente sangue, pochissime urla, solo un senso di inquietudine crescente. Forse mi aspettavo qualche scena più spaventosa, ma è proprio questo il bello: Nakata gioca sulla calma, sui rumori, sulle immagini sgranate e sulla lentezza glaciale di Sadako. È un terrore sottile, che non ha bisogno di strafare per colpirti, che però dopo quasi tre decenni qualcosa la perde: sarebbe stato bello vederlo quando avevo 17 anni, in effetti. Lo trovate su Mubi.
•••

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3 risposte a “Capitolo 417: Il Mese dei Record”

  1. Avatar Austin Dove

    Anche io ho visto la maschera della morte rossa. Più che altro troppo lungo, poche perversione mostrate troppo nel dettaglio con mille discorsi

    Io di Ringu avevo letto il romanzo da cui era tratto^^

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    1. Avatar AlessioT

      Sì, avevo letto che era stato tratto da un romanzo, quindi è stato tradotto anche in italiano? Mi incuriosisce molto, secondo me è una storia che su carta può essere davvero interessante

      Piace a 1 persona

      1. Avatar Austin Dove

        Hai presente il film giapponese? Ecco. Siamo su quel livello di tragedia

        Piace a 1 persona

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