
Bill Plympton è uno della vecchia scuola, questo è certo: si tratta di uno dei rari casi al mondo in cui l’animatore disegna personalmente ogni fotogramma a mano, senza collaboratori. Tutto ciò suona strano nell’epoca dell’animazione digitale, nell’era della perfezione tecnica il tratto confuso e schizzato di Plympton è il classico fulmine a ciel sereno, eppure funziona, impeccabile nella sua essenzialità, fluido nella sua tortuosità, angelico nella sua mostruosità. La straordinaria arte povera dell’animatore americano, premio Oscar nel 1987, arriva silenziosamente anche in Italia, durante una proiezione speciale all’interno del Festival romano dedicato al cinema d’animazione, Cortoons, giunto quest’anno alla sesta edizione.
Idiots and Angels è una parabola potente e violenta sulla società moderna, una storia dove i concetti di bene e male si toccano, si trovano, si mischiano, si scontrano. La routine quotidiana del corrotto e violento Angel, stressato dalla società, dall’ansia del traffico e colto da un perenne “mal di vivere”, che lo rende indisponente e insofferente nei confronti del mondo esterno, è improvvisamente scossa da un miracolo: due piccole ali compaiono sulla sua schiena. Inutili sono i tentativi dell’uomo di nasconderle, di castrarle, di incatenarle: le ali sembrano vivere di vita propria, inizialmente impedendo al loro angelo di compiere scorrettezze, quindi, di pari passo con la loro crescita, “costringono” il protagonista a compiere atti di pura bontà. Un barista senza scrupoli e un chirurgo ambizioso cercheranno però di uccidere l’angelo per rubargli le ali e arricchire le loro tasche.
Dispiace vedere che un film di tale spessore, ricco di contenuti attuali e con uno stile irriverente e allo stesso tempo godibile (senza dimenticare le musiche di Tom Waits!), in Italia non possa avere la visibilità che merita, colpa forse di una distribuzione troppo pavida nei confronti di un film d’animazione così rischioso per il mercato italiano. Eppure in Francia Idiots and Angels è uscito nelle sale a metà gennaio, attirando su di sé l’attenzione dei Cahiers du Cinéma: perché in Italia un gioiello di questa portata deve avere come unico sbocco la limitata programmazione di un festival?
