Recensione “Eva” (2011)

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“Che cosa vedi quando chiudi gli occhi?”: questa la formula per addormentare l’anima di un robot in questo meraviglioso esordio del catalano Kike Maillo, altro figlio di questa nuova scuola di cinema spagnolo che negli anni ha portato alla ribalta grandi autori come Jaime Balaguerò o Juan Antonio Bayona. Lontani echi di A.I. (senza alone favolistico però), citazioni kubrickiane (il labiale rivelatore è un chiaro omaggio a 2001) e antichi sentimenti che danzano sulle note di Space Oddity di Bowie, il lento più originale mai ballato sul grande schermo.

Alex viene richiamato dopo dieci anni nell’università di robotica di Santa Irene in cui aveva lasciato a metà un importante progetto di intelligenza artificiale. Si installa nella vecchia casa paterna, ritrova il fratello e soprattutto la donna amata tanti anni prima, ora madre di una splendida bambina, Eva. Alex decide di utilizzare l’intelligenza e le emozioni della piccola come modello per un nuovo tipo di robot-bambino, sul quale sta lavorando per conto dell’università. Tra i due nasce un rapporto speciale, dietro il quale si nascondono una verità e un destino inaspettato.

La fantascienza d’autore è sempre stato un genere cinematografico di proprietà del cinema indie statunitense, Maillo però osa sfatare la tradizione e con il suo primo lungometraggio raccoglie la sfida, vincendola pienamente. Il suo è un futuro che in qualche modo ci somiglia, ci sembra familiare e forse è per questo che le sensazioni che suscita sono così reali. Il regista catalano si affida al volto di Daniel Bruhl (lanciato da Goodbye Lenin e consacrato da Bastardi Senza Gloria) e al sorriso più bello del cinema spagnolo (quello di Marta Etura, già ammirato nel recente Bed Time e in Cella 211), facendo di Eva una delle sorprese più belle della stagione cinematografica: nel suo film l’intelligenza è artificiale, ma le emozioni sono vere.

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