Il primo lungometraggio di Diego Quemada-Diez è un’odissea amara e indimenticabile, in cui il mito della frontiera e del sogno americano rivivono in chiave latinoamericana. Il regista iberico si è avvicinato al cinema nel 1995, come assistente di Ken Loach, che gli ha senza dubbio insegnato la lezione principale del suo modo di fare cinema: restare sempre ancorati alla realtà, magari con attori non professionisti, girare in luoghi reali sfruttando la luce naturale e con la macchina da presa perennemente in spalla. È una regia silenziosa, che lascia grande spazio a ciò che succede intorno ai suoi protagonisti e alle loro sensazioni. Ciò che ne esce fuori è un film vero, autentico, reale e leale, che non vuole strizzare l’occhio allo spettatore, ma che semplicemente cerca di renderlo partecipe di un viaggio, di un desiderio, di un sogno.
Juan e Sara, ragazzi dei quartieri poveri del Guatemala, si imbarcano in un viaggio impossibile verso gli Stati Uniti, alla ricerca di miglior fortuna. Durante il cammino incontrano Chauk, un giovane indio dal cuore grande, che però non parla spagnolo. I tre condividono il lungo viaggio e le paure, i vaghi attimi di gioia, le grandi difficoltà e i treni da rincorrere.
Si imparano tante cose lungo il cammino, un viaggio fisico e mentale dove tutti si preoccupano delle stesse cose, dove tutti imparano a condividere e a capire che la più grande risorsa che abbiamo a disposizione sono gli esseri umani. In quanto tali, nessuno è clandestino. Il film è bellissimo proprio per questo, perché racconta tutto ciò senza apparire mai furbo, mette al centro della scena l’essere umano con le sue sfumature e le sue contraddizioni. Racconta l’emigrazione come se fosse una legge di natura, quella frontiera una volta sinonimo di conquista, ora intesa come terra di sogni e di speranza. Inseguendo un treno, quel treno che porta anime perse in cerca di un futuro.
pubblicato su Cinema Invisibile