Recensione “Blue Jasmine” (2013)

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Woody Allen torna ancora una volta negli Stati Uniti, dopo questa sorta di “pensione” cinematografica in Europa, dove ha realizzato film memorabili (su tutti “Match Point” e “Midnight in Paris”) e film molto deludenti (“Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni” e “To Rome with love”). La sua ultima fatica, ambientata a San Francisco, tende più a far parte del novero dei film deludenti che in quello dei memorabili. A dirla tutta sarebbe anche un buon film se soltanto non fosse un film di Woody Allen: dal regista newyorkese ci si aspetta sempre un qualcosa in più, un tocco di genialità, e quando tutto questo manca è talmente evidente da farci subito deprezzare il film. Cate Blanchett regge sulle sue spalle e sulle incredibili sfumature del suo viso tutti i 98 minuti della pellicola, e basterebbe lei a rendere la sua Jasmine un personaggio memorabile. Ma probabilmente non basta.

Jasmine, donna ricca e snob, deve fare i conti con il fallimento del suo matrimonio (suo marito Hal, uomo d’affari, finisce in prigione per truffa) e la perdita del suo patrimonio (sequestrato dal governo in quanto denaro sottratto illegalmente dal marito): decide di trasferirsi a San Francisco da sua sorella Ginger per ricominciare una nuova vita. L’appartamento di Ginger è però modesto, così come il suo stile di vita. Jasmine, imbottita di psicofarmaci, è a metà strada tra la perdita della ragione e il desiderio di rimettersi in gioco. Il corso degli eventi e una serie di incontri porteranno Jasmine ad imboccare definitivamente una delle due strade.

Il cambiamento della protagonista è il punto di forza della pellicola: il contrasto tra i flashback in cui la vediamo felice e spensierata a New York e il suo presente di donna che sembra ancora nel pieno di una lunga crisi di nervi. Il cambiamento non è soltanto il passaggio da una costa all’altra degli States, ma anche da una classe sociale all’altra, dalla nullafacenza al tentativo di lavorare. Jasmine è una parassita, si nutre di ciò che possono darle gli altri, che sia una casa, un vestito o il suo stato sociale. Allen dipinge una persona orribile, che di fronte alla perdita dei beni materiali perde anche se stessa: è nel contrasto con i personaggi che la circondano che il film sembra funzionare, ma proprio quando dovrebbe osare di più, si spegne, salvo riaccendersi su un finale perfettamente in linea con la storia, e soprattutto sulle note di una splendida “Blue Moon”. Woody Allen anche stavolta ha fatto il suo compitino, ma sinceramente non ci possiamo accontentare.

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