Bastano cinque minuti per innamorarsi di questo film. Il bianco e nero, la musica che copre le voci, fino a scoprire lentamente Frances, la protagonista, personificazione della precarietà, goffa, buffa, probabilmente un po’ svitata, ma infinitamente piacevole. Frances non ha una casa e salta da un appartamento all’altro. Frances non ha abbastanza talento e deve quindi accontentarsi dei lavoretti che riesce a trovare. Frances non ha soldi ma non può neanche definirsi povera “perché sarebbe offensivo nei confronti di chi è davvero povero”. Frances non ha un ragazzo (è “infidanzabile”, come la definisce uno dei suoi coinquilini) ma neanche è in cerca di avventure. Frances fa della sua precarietà, di sentimenti, di denaro, di alloggio, un vero e proprio modo di vivere: è se stessa in ogni momento, non nasconde la gelosia quando la sua migliore amica si innamora e va a vivere con il suo ragazzo, non nasconde il sorriso quando le cose non vanno esattamente come vorrebbe.
Noah Baumbach è uno dei punti di riferimento del cinema indie statunitense del nuovo millennio, in particolare del movimento cosiddetto mumblecore: il suo film ha il respiro di un cinema nostalgico, come la nouvelle vague alla quale strizza l’occhio continuamente (i jumpcuts alla Godard, la musica de “I 400 Colpi” di Truffaut, la tv che trasmette “Domicile Conjugal” dello stesso Truffaut), contendendo atmosfere e situazioni al cinema di Jarmusch o addirittura a quello di Woody Allen. Dopo averla lanciata con il precedente “Greenberg”, Baumbach costruisce l’intero film sulla naturalezza di Greta Gerwig, qui alla sua consacrazione definitiva: il classico caso in cui l’attrice protagonista e la sceneggiatura sembrano completarsi, fatti l’una per l’altra (non a caso l’attrice ha scritto il film insieme a Baumbach).
Un film ricco di citazioni (un’altra? La corsa della protagonista sulle note di “Modern Love” di Bowie è un omaggio ad una scena di “Mauvais Sang” di Leos Carax) ma che non perde comunque la sua anima e la sua originalità. La storia di Frances è la storia di una quasi-trentenne come ce ne sono ovunque, in ogni città: è per questo che New York, per quanto riconoscibile, è quasi una città qualunque, è per questo che il bianco e nero non è soltanto una scelta per ostentare un certo tipo di cinema, ma soprattutto una mossa stilistica che cambia la percezione dello spazio e del tempo del racconto: quella che guardiamo è la storia di Frances, ma potrebbe anche essere la nostra, quella dei nostri amici o dei nostri ex-compagni di università. Baumbach, senza apparire mai pretenzioso, firma una sorta di manifesto dei trentenni di oggi, delle montagne russe della precarietà, di una way of life che in qualche modo ci appartiene, e che in pochi riescono davvero ad inquadrare. È questo il cinema che amiamo.