Recensione “Rocky” (1976)

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La prova del tempo. Questo è il più grande riconoscimento per un film: non un Oscar, non il box office, ma il tempo. Perché se una pellicola, a distanza di quasi quarant’anni, continua ad emozionare e commuovere anche alla decima visione, è la prova definitva per considerarla un capolavoro. “Rocky”, sia dal punto di vista produttivo, oltre che narrativo, è una straordinaria favola: una storia di riscatto personale, resurrezione (non è casuale il primo frame del film, con un’insolita immagine di Cristo in una palestra dove si stanno svolgendo i combattimenti), è in fin dei conti anche una grande storia d’amore. Lo sconosciuto e squattrinato Sylvester Stallone, traendo ispirazione da un vero incontro tra il campione Muhammad Alì e un pugile di livello minore, Chuck Wepner (che crollò di fronte al campione solo nell’ultimo round), scrive la sceneggiatura che può valere una carriera. I produttori sono molto interessati e già vedono Robert Redford o Burt Reynolds nei panni di Balboa. Ma Stallone, nonostante le difficoltà economiche, rifiuta di vendere lo script: vuole essere lui ad interpretare il suo eroe. Il resto è storia: tre premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Montaggio); Stallone è l’unico, dopo Chaplin e Orson Welles, a ricevere la nomination sia come attore che come sceneggiatore; ben cinque sequel.

Rocky Balboa è un pugile italoamericano di scarso livello, per una serie di motivi non è mai riuscito a sfondare e per racimolare qualche soldo è costretto a lavorare come esattore per il boss del quartiere, motivo per cui il suo allenatore non lo vede di buon occhio. Rocky è invaghito di Adriana, timida commessa in un negozio di animali e sorella del suo migliore amico Paulie. Nel frattempo il campione dei Pesi Massimi Apollo Creed arriva a Philadelphia per un grande match di pugilato che si svolgerà il giorno del bicentenario degli Stati Uniti d’America: il suo sfidante ufficiale si infortuna e trovare un altro avversario di alto livello poco più di un mese prima dell’incontro è quasi utopico. Si decide così di dare un’opportunità ad un perfetto sconosciuto: Apollo decide di mettere in palio il titolo di campione e regalare le luci della ribalta ad un boxeur minore, per aumentare la propria popolarità con un evento utile solo a celebrare il classico sogno americano. La scelta ricade su Rocky Balboa, che finalmente ha l’occasione di dimostrare ad Adriana, alla gente del suo quartiere e soprattutto a se stesso di non essere un fallito: “In fondo chi se ne frega se perdo questo incontro, non mi frega niente neanche se mi spacca la testa, perché l’unica cosa che voglio è resistere, nessuno è mai riuscito a resistere con Creed; se io riesco a reggere la distanza e se quando suona l’ultimo gong io sono ancora in piedi, se sono ancora in piedi, io saprò per la prima volta in vita mia che non sono soltanto un bullo di periferia”.

Accompagnato dalla perfetta colonna sonora di Bill Conti, “Rocky” è un vero e proprio miracolo produttivo, costituito da scene improvvisate (gli allenamenti di Rocky; il manifesto con i colori dei pantaloncini invertiti, dovuto ad un errore incorreggibile a causa del basso budget), un casting perfetto e da soluzioni narrative consegnate all’immaginario collettivo (la corsa sulla scalinata di fronte al Museum of Art di Philadelphia, per non parlare dell’ormai celebre urlo a fine incontro al nome di “Adrianaaa!”). Nell’ultima scena, anche se massacrato dai colpi e dalla fatica, la vittoria di Rocky è in quel “ti amo” che Adriana gli urla per la prima volta, appena salita sul ring, nella confusione e nell’euforia generale. E chi ha bisogno di altro?

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Un commento Aggiungi il tuo

  1. Pendolante ha detto:

    Hai ragione, è un film che emoziona sempre

    "Mi piace"

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