Recensione “Il caso Spotlight” (“Spotlight”, 2015)

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Questo è uno di quei film per il quale è bello amare il cinema. Quando, seduto su quella poltroncina, senti tuoi il sonno, la fatica, la stanchezza, l’adrenalina, la passione, la caparbietà e tutte le sensazioni e le emozioni che provano i protagonisti della pellicola in questione. La grandezza del film di Tom McCarthy è tutta qui: sa trasmettere la stessa passione provata dai suoi eccelsi protagonisti. Non è solo l’oggetto dell’indagine a coinvolgere, è soprattutto la ricerca della verità ad emozionare in maniera dirompente, a far sentire i brividi sulla pelle, facendoti capire che quello del giornalista, il giornalista “vero”, è forse il lavoro più bello del mondo. Forse. Ma film come “Tutti gli uomini del Presidente”, capostipite del cinema giornalistico, oppure “State of Play”, per nominare un titolo più recente, fanno pensare che forse è proprio così.

Nel 2001 il nuovo direttore del Boston Globe chiede alla sua redazione di giornalisti d’inchiesta, denominata “Spotlight”, di indagare sul caso di un prete accusato di pedofilia. Da una piccola scintilla però può divampare un grande fuoco: il team di Spotlight, seppur consapevole delle difficoltà e dei rischi, scava in fondo alla storia, scoprendo una verità che per anni è stata insabbiata dalla Chiesa, dalle autorità e dagli stessi mezzi di comunicazione. Una verità che farà tremare le fondamenta della comunità cattolica non solo di Boston, ma del mondo intero.

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