Recensione “Columbus” (2017)

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Negli Stati Uniti, in Indiana, c’è una cittadina di neanche quarantacinquemila abitanti che racchiude tra le sue strade alcuni gioielli di architettura moderna. Quella città è proprio Columbus, dove possiamo trovare edifici realizzati da Eero Saarinen, Ieoh Ming Pei, Robert Venturi, Cesar Pelli e soprattutto Richard Meier. Tra queste strutture si muovono dunque i personaggi di questo film d’esordio firmato da Kogonada, coreano impiantato negli States, celebre per i suoi “video saggi” dedicati a Wes Anderson, Stanley Kubrick e Yasugiro Ozu.

Jin, un uomo coreano cresciuto negli Stati Uniti, si ritrova bloccato a Columbus dove suo padre, un architetto con il quale ha un pessimo rapporto, è in coma. Qui, tra la noia di giorni tutti uguali, trova nella giovane Casey una persona con la quale passare il tempo tra conversazioni profonde e la scoperta dei tesori architettonici della città. Casey infatti sogna di studiare architettura, ma sa che non potrà farlo poiché non intende lasciare la madre da sola, una ex-tossicodipendente in una delicata fase di recupero.

Jin e Casey, nonostante le differente riguardanti età, estrazione sociale e provenienza, riescono a trovare l’un l’altra una spalla sulla quale appoggiare parte del peso delle loro vite, un’amicizia che si forma tra gli angoli e le mura di edifici che sembrano anch’essi intenti a raccontare una storia. Kogonada è raffinato, bravissimo nell’alternare l’austerità dei palazzi con il caos dei sentimenti provati dai due protagonisti. Uscirà in Italia? Speriamo di sì.

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