Recensione “Il Lago delle Oche Selvatiche” (2019)

Nella settimana in cui tutti parlano giustamente di Parasite e del cinema sudcoreano, la Cina risponde con un bellissimo noir silenzioso e malinconico, presentato lo scorso anno al Festival di Cannes. Cinque anni dopo l’Orso d’Oro Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno, Diao Yinan torna con un film ricco di suggestioni visive, tra vetri bagnati dalla pioggia, ombrelli insanguinati e una maglietta di Gabriel Batistuta (!). La dimostrazione che da un plot piuttosto essenziale e semplice si può realizzare un film molto bello, visivamente emozionante.

Appena uscito di prigione Zhou Zenong si ritrova al centro di un feroce litigio tra due bande di ladri di motociclette, che dopo vari ferimenti si conclude con l’uccisione di un poliziotto. Zenong è ora ricercato sia dalla polizia che da una gang rivale ed è costretto ad una fuga senza sosta insieme ad una prostituta incontrata in una stazione.

Tra location labirintiche e luci a neon, la fuga di Zenong a tratti fa pensare a I Guerrieri della Notte (se non a “Carlito’s Way”): un costante senso di pericolo avvolge infatti il percorso di questo protagonista silenzioso, un antieroe drammatico e romantico, accarezzato continuamente da un alone di malinconia. Un film di meravigliosa intensità visiva, dove la bellezza delle immagini talvolta sembra quasi cozzare con la drammaticità della narrazione, in un film molto bello il cui l’unica grande pecca forse è proprio quella di meravigliarsi più per la costruzione di una scena che per ciò che avviene in essa, ma tant’è: Il Lago delle Oche Selvatiche si inserisce dunque benissimo in quest’ondata di cinema orientale che, da un paio di decenni in particolare, non vuole più smettere di stupirci.


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