
Incredibile come passa il tempo quando ci si diverte! Gennaio è già finito, abbiamo un “nuovo” Presidente della Repubblica e io sto vedendo una quantità tale di film su Mubi che a un certo punto finirò per essere ritrovato incollato al divano senza cibo né acqua. Nessun nuovo film in questo capitolo, in attesa di tempi (e di film) migliori per tornare a seguire le anteprime stampa (ho volontariamente cassato quella del nuovo film di Del Toro e un altro paio qua e là). La cosa più assurda di questo capitolo, me ne rendo conto soltanto adesso che ho la lista di film visti davanti agli occhi, è che non ho visto neanche un film statunitense negli ultimi 12 giorni. Cosa vorrà dire? Niente, come sempre.
I Diabolici (1955): All’inizio degli anni 50 Henri-Georges Clouzot vola in Brasile con la neo-sposa Vera Amado con l’intenzione di girare un documentario (poi trasformato in libro) sulle superstizioni e i riti religiosi ai quali aveva assistito. Cinque anni dopo, ancora influenzato dalle suggestioni brasiliane, si concentra sul romanzo noir “Les Diaboliques”, in cui la vittima di un omicidio perseguita i responsabili dell’uccisione. Clouzot compra i diritti del libro (soffiandoli a Hitchcock, che in seguito adatterà un altro romanzo degli stessi autori, che divenne un certo “Vertigo”) e realizza un film bellissimo, pieno di suspense, talmente acclamato da portare la critica a considerare Clouzot “l’Hitchcock francese” (tutto torna). Rivedendolo a distanza di anni devo dire che, conoscendo già i vari colpi di scena, perde sicuramente l’effetto wow della prima volta, ma resta comunque un film meraviglioso.
Days of Being Wild (1990): Se non riesci ad uscire da un tunnel, arredalo. È un po’ quello che mi sta capitando con Wong Kar-Wai, di cui sto recuperando praticamente tutta la produzione del secolo scorso, che non avevo mai visto. “Days of being wild” è il suo secondo film, acclamato dalla critica ma un flop a livello commerciale: è la storia di un uomo alla ricerca della sua madre naturale, mentre nel frattempo si lascia alle spalle una scia di donne innamorate di lui. Wong Kar-Wai con questo film comincia a delineare seriamente lo stile che caratterizzerà tutta la sua produzione del decennio successivo, a partire dalla collaborazione con il direttore della fotografia Christopher Doyle, l’estetica, lo stile di regia e i temi classici del suo cinema (il tempo, l’incompiutezza dei rapporti interpersonali, la schiavitù dell’amore). Bello, ma il meglio doveva ancora venire…
Playlist (2021): L’esordio alla regia di Nine Antico nasce chiaramente dall’ispirazione che quel capolavoro di “Frances Ha” ha infuso in tutti noi, che se avessimo tempo, talento e capacità vorremmo rifare a modo nostro. Non è Frances ma è comunque francese, e non è poco: la cameriera di un bistrot, appassionata disegnatrice, riesce a farsi assumere da una casa editrice di graphic novel in veste di segretaria. Non è il suo sogno, ma è meglio di niente. Nel frattempo cerca di capire se è ancora in tempo a realizzare ciò che vorrebbe (diventare una fumettista), mentre si barcamena in una Parigi piena di uomini che entrano ed escono dalla sua vita, in maniera più o meno superficiale. Il film è molto carino, forse gli avrebbe giovato una catarsi, una scena madre che gli avrebbe permesso di alzare l’asticella e di porsi come un progetto leggermente più ambizioso, resta comunque un film molto carino, apprezzabile come un buon formaggio francese sulla baguette appena sfornata (tiè, beccatevi sto cliché!).
“Mi avevi detto ti amo” “No, ti avevo detto: piano!”
Ratcatcher (1999): Film d’esordio di Lynne Ramsay, che potrebbe inscriversi nel filone del realismo sociale (il tipico cinema di Ken Loach, per farvi capire). Siamo nei sobborghi di Glasgow nel 1973, periodo in cui il governo stava cercando di ricollocare i cittadini delle zone più povere (che non avevano neanche l’acqua calda o i bagni in casa, per dire) in nuovi quartieri popolari meno fatiscenti. Per non farsi mancare niente quello è anche il periodo del clamoroso sciopero dei netturbini, che rende le condizioni già pietose delle abitazioni ancora peggiori, a causa dalla montagna di mondezza che le circonda (tipo la spiaggia di Franchino in “Fantozzi subisce ancora” o un qualunque quartiere della periferia di Roma negli ultimi anni). In questo contesto vive il giovane James, la cui famiglia aspetta impazientemente di essere ricollocata in una nuova casa. James ha causato, involontariamente, la morte di un coetaneo (annegato in un canale) e per tutto il film vediamo il ragazzo convivere con il suo senso di colpa, mentre cerca di dare un senso alla terribile vita del quartiere in cui sta crescendo. Tosto ma molto bello, è su Mubi.
Zombi Child (2019): Bertrand Bonello nel 2016 è stato la rivelazione della Festa del Cinema con il bellissimo “Nocturama” (che potete trovare su Netflix). Quando su Mubi mi sono imbattuto nel suo film successivo non ho aspettato un minuto per guardarmelo. Come sempre non si tratta di un’opera del tutto lineare: il film racconta in parallelo la storia di un uomo che, nel 1962 ad Haiti, è stato “zombificato” e reso schiavo per lavorare in una piantagione da zucchero e quella di una ragazza, Melissa, nipote di quell’uomo-zombi, che si ritrova a condividere la storia della sua famiglia (e il voodoo al quale è legata) con le compagne di collegio nella Parigi del 2017. Bonello è un regista che ama applicare stratificazioni e simbolismi continui alle sue scene, ma nonostante accada ben poco, l’opera nel suo insieme è così affascinante che si resta agganciati per tutto il film a questa curiosa allegoria politica legata agli zombi (anche in “Nocturama” i riferimenti a Romero non mancavano). In tutto ciò va segnalata la meravigliosa scena del rito voodoo che mi ha un po’ terrorizzato e una colonna sonora fantastica, piena di suggestioni synth, dove spicca sui titoli di coda quel capolavoro di “You’ll never walk alone” (nella clamorosa versione di Gerry & the Pacemakers), che è proprio impossibile evitare di cantare a squarciagola (meno male che non ero in una sala cinematografica). Un film molto particolare, ma davvero bello. Neanche a dirlo, è su Mubi.
As Tears Go By (1988): Il film d’esordio di Wong Kar-Wai è praticamente, senza alcun dubbio, il remake orientale di “Mean Streets” di Martin Scorsese. Su questa base poi è ovvio che il film è molto bello, forse ancora acerbo nello stile e nell’estetica, ma senza dubbio un inizio di carriera promettente per un regista che ai tempi aveva appena trent’anni. La pecca è che, essendoci già “Mean Streets”, questo lo guardi senza particolari slanci visto che già sai come andrà a finire. Il titolo, teorizzo, è tratto da una canzone dei Rolling Stones (che nel film non c’è), la band preferita dello stesso Scorsese: un caso? Per il resto, al di là dei riferimenti al regista newyorkese ci sono citazioni kitsch anche di “Top Gun” (di due anni prima), con Andy Lau che indossa i Ray-Ban in pieno stile Tom Cruise, oltre ad una versione cinese di “Take my breath away” dei Berlin. Nel finale spicca una canzone neomelodica cinese che fa accapponare la pelle. A parte gli scherzi, il film è bello, soprattutto è interessante vedere da dove aveva iniziato un regista che poi ha realizzato un filmone dopo l’altro per tutto il decennio successivo e oltre.
France (2021): Al Nuovo Sacher di Nanni Moretti stanno proponendo due settimane di film in lingua originale (tre diversi ogni giorno) e non si sa davvero dove sbattere la testa. Questo di Bruno Dumont, che era in concorso a Cannes, mi è immediatamente sembrato un titolo imperdibile: che errore! Lea Seydoux è una giornalista (oltre che anchor-woman) di successo, la più amata e seguita di tutta la Francia, celebre per i suoi reportage di guerra e per le domande scomode poste al presidente Macron (che qui compare in una bellissima scena realizzata grazie al montaggio di immagini d’archivio). Un giorno, in seguito ad un piccolo tamponamento, cade in depressione e la sua vita va alla deriva. La prima parte del film è davvero promettente, ironica, divertente, piena di ritmo e di trovate interessanti, poi il film, così come la vita della sua protagonista, deraglia, appesantendo la storia con scelte totalmente discutibili e scene che ti verrebbe voglia di urlare per quanto sono brutte. Il film è una delusione totale, un fallimento clamoroso e, per quanto sia meravigliosa, vedere Lea Seydoux che piange in primissimo piano ogni 36 secondi per circa un’ora è sfiancante. Brutto film, vorrei farmi una chiacchierata con chi lo aveva inserito nella classifica dei migliori del 2021 (vatti a ricordare chi era): mi deve due ore di sabato pomeriggio.
SERIE TV: Ho finito Afterlife e devo dire che mi manca, nonostante fossero anche stavolta soltanto 6 episodi da 20 minuti. La serie di Ricky Gervais non è girata in maniera impeccabile, non ha attori strepitosi o un’ambientazione incredibile, eppure è una totale presa a bene, se fosse stata più lunga sarebbe stata una adorabile dipendenza. Per il resto sono andato avanti con Manifest, di cui nello scorso capitolo avevo parlato benissimo dell’episodio pilota. Il produttore esecutivo è Robert Zemeckis, che sicuramente ha un certo peso sulla riuscita di alcuni episodi, ma in realtà più vado avanti e più mi sembra quella che tra amici si definisce, senza troppi giri di parole, una cazzata. I primi episodi della prima stagione sono piuttosto coinvolgenti e devo dire che fino ad un certo punto ero davvero catturato dalla storia. Poi, piano piano, sarà stata la mancanza di idee o l’incapacità di sviluppare un plot così intrigante, la serie diventa davvero piena di stupidate e di incongruenze. Ora sono all’inizio della terza e (finora) ultima stagione e sono comunque curioso di vedere dove andrà a parare, potrei dire che è diventata una serie talmente brutta che non riesco a smettere di guardarla. Peccato, perché alcune puntate erano davvero gagliarde. Dulcis in fundo ho cominciato finalmente a vedere i Soprano, che sto vedendo però con una lentezza allucinante (ho visto solo tre episodi in dieci giorni) perché, non essendo disponibile su nessun servizio di streaming, devo collegare il pc alla tv per poter vedere i dvd (e collegare questo pc alla tv è una rottura di palle incredibile, tra lo schermo che balla e i cavi in mezzo al salotto). Quindi la soluzione è: o mi rassegno e monto il pc ogni sera per vedere almeno una puntata o lo guardo direttamente al pc nel tardo pomeriggio (ma sarebbe un peccato non godermelo su uno schermo più grande). Detto ciò, di cui sono certo vi interessi pochissimo, è ancora troppo presto per parlare della serie, che è già comunque irresistibile: mi sono sganasciato ad esempio quando Tony parla alla madre di Cap d’Antibes, chiamandola Captain Tibbs, come se fosse una persona e non una località (ed è stato curioso perché proprio quel giorno avevo definito un viaggio di lavoro che farò proprio ad Antibes in primavera, gli strani scherzi del destino!).
