Recensione “Civil War” (2024)

Il cinema più e più volte ci ha raccontato storie di fotografi di guerra, sia reali (come il Bang Bang Club del film omonimo o la Marie Colvin di A Private War) che di finzione (Mille Volte Buona Notte, Salvador, giusto per citarne alcuni): ad accomunare le loro vicissitudini era un’ambientazione sempre lontana dagli agi e dalle sicurezze dell’Occidente, visto che tali storie si svolgevano in Medio Oriente, in Africa o in America Latina. Il regista Alex Garland capovolge questo cliché, approfittando del grande periodo di confusione degli Stati Uniti (proprio nell’anno delle elezioni), per raccontare il futuro pessimistico e, si spera, utopistico del suo Paese, con una sconvolgente guerra civile che sta mettendo in ginocchio la popolazione. Il punto di vista è quello di quattro reporter molto diversi tra loro, in viaggio da New York fino alla Casa Bianca.

Garland porta lo spettatore di peso dentro le zone di guerra, tra proiettili che fischiano nelle orecchie e un’estetica disumanizzante, che vorrebbe apparire distaccata, come ci mostra l’esperta fotoreporter Lee Miller, ma che invece è scioccante e spaventosa, come appare agli occhi della novellina Jessie. Non ci è dato conoscere il background politico della questione, i perché e i percome della secessione in atto tra le Western Forces (Texas e California) e Washington, non è infatti questo il punto del film. Il punto è che c’è una storia che deve essere raccontata (quella degli ultimi giorni di un presidente fanatico, vicino alla resa) e c’è un gruppo di persone che ha il dovere di raccontarla: in mezzo c’è la sofferenza di un Paese sconvolto, distrutto, spaventato dove la parola democrazia ha ormai da tempo perso quella che sembrava essere la sua indiscutibile potenza. Una metafora non troppo velata delle tante divisioni e delle crudeltà che gli Stati Uniti stanno affrontando in questi ultimi anni (e che potrebbero aumentare in maniera esponenziale in caso di una nuova elezione di Donald Trump).

Civil War, nella sua apparenza da road movie post-apocalittico, intende parlare più degli Stati Uniti che di giornalismo, più di umanità che degli occhi intenti a documentarla, senza mai il lusso di poter distogliere lo sguardo, in nome della verità. Un lusso che non hanno neanche gli spettatori, in particolar modo quelli statunitensi, nel vedere le loro città distrutte, ridotte in macerie, così come noi spettatori europei, non abituati a vedere guerre nel nostro comodo e sicuro Occidente. Alex Garland sembra quasi voler lasciare un monito, portando la guerra per le nostre strade, alla porta di casa nostra. Oggi tocca a Kiev e Gaza, domani toccherà a noi? Attenzione dunque se avete intenzione di voltare lo sguardo da un’altra parte, perché anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.


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