Il critico cinematografico ieri, oggi, domani (parte 5 di 9)

CAHIERS DU CINEMA: LA CONSAPEVOLEZZA DEL CRITICO CINEMATOGRAFICO
Nel secondo dopoguerra la Francia si dimostra ancora Paese principe per quanto riguarda la figura del critico cinematografico, confermato dal boom di riviste cinematografiche: solo nel 1946 nascono riviste come «Télé-Ciné», «Image et Son» e la seconda serie della «Revue du Cinéma», rigenerata dallo stesso Jean George Auriol che l’aveva fondata nel 1928 con la funzione di ponte tra la generazione di critici degli anni Venti e quella del dopoguerra. La «Revue» sente fortemente il bisogno di definire una linea critica, e nel numero 4 Jacques Bourgeois si pone lui stesso la domanda: «A quoi sert donc la critique?». La risposta, motivata in tre pagine, è innanzitutto astiosa («il critico è un signore che sa parlare gradevolmente della sua specialità tutto preso dal suo raccapricciante spirito da “buon parigino”») e disillusa («il cinema è un’arte troppo giovane perché se ne possano già definire i canoni estetici»), ma si fa più positiva nel cercare di definire una critica efficace, ovvero «capace d’aiutare il cinema nella sua evoluzione».

Nel dopoguerra i nomi emergenti sono quelli di Alexandre Astruc (un teorico di cinema, noto per la definizione di caméra-stylo ) e André Bazin, padre e mentore della nuova generazione di critici che si affaccerà in Francia negli anni Cinquanta. L’11 dicembre 1943 Bazin pubblica su «L’Echo des étudiants» un lungo articolo intitolato “Pour une critique cinématographique”, che fa da apripista per la nuova generazione di critici e teorici. Il critico spiega inizialmente come gli spettatori siano diventati più esigenti, e di conseguenza come i critici debbano diventare più competenti: Bazin prova a immaginare un critico d’opera capace di criticare soltanto il libretto, e afferma che in quel periodo si cerca invano nella maggior parte dei cronisti di cinema un’opinione sulla qualità della fotografia, dei giudizi sull’utilizzo del sonoro, sulla precisione del montaggio, o una parola sulla materia stessa del cinema. L’articolo si conclude con un piano di ricostruzione di una critica che deve essere «intelligente et consciente de ses responsabilités», «hautement désiderable», nella quale riconoscere una «certaine spécialisation».

Nel 1949 «La Revue du cinéma» termina le pubblicazioni per la stessa causa per cui erano scomparse tante riviste prima di essa: la mancanza di fondi. Nel biennio 50-51 compaiono delle riviste più confidenziali, un’emanazione diretta dei cinéclub, sorta di bollettini che escono dal cerchio dei membri del club per una diffusione comunque limitata a qualche edicola o libreria amica (meritano la citazione «Raccords», «La Gazette du cinéma», «L’Age du cinéma» e «Saint-Cinéma des Prés»). Queste riviste avranno vita breve, ma gli va attribuito il merito di aver in un certo senso preparato il terreno alle due riviste che rappresenteranno la cinefilia degli anni Cinquanta, ovvero «Positif» e soprattutto i «Cahiers du cinéma».
Jean George Auriol aveva apertamente manifestato la volontà di riprendere l’esperienza della «Revue du cinéma» con una nuova rivista. La sua morte accidentale, nell’aprile del 1950, spinge Jacques Doniol-Valcroze a dar vita all’ultimo desiderio di Auriol: insieme a Jean-Marie Lo Duca e ad André Bazin, fonda i celebri «Cahiers du cinéma», il cui primo numero esce il primo aprile 1951 (anche se il nome di Bazin viene clamorosamente dimenticato da Lo Duca nella lista dei fondatori, errore che verrà riparato dal numero 2, ma che lascerà un’ombra nel rapporto tra i due). La copertina gialla, con una foto di Gloria Swanson in Sunset Boulevard, ricorda quella dell’ormai storica «Revue»; l’articolo di presentazione del primo numero è dedicato proprio alla figura di Jean George Auriol:

«Se il ricordo del nostro amico non fosse così vivo nel mondo del cinema, noi non daremmo questi Cahiers alla stampa. Forse ci abbandoneremmo ad una sorta di malevola neutralità che tollera un cinema mediocre, una critica prudente ed un pubblico inebetito. I ventinove numeri della prima «Revue du Cinéma» (1929-1931) provano però che un punto di riferimento non è inutile; prima si lascia estinguere la bella rivista dalla striscia rossa, dopodiché ci si accorge che essa teneva un posto considerevole e che il suo stesso valore commerciale era rispettabile. La seconda serie di diciannove numeri (1946-1949) è venuta anch’essa a mostrarci la necessità di una confluenza dove ci fosse il bisogno di tenere un linguaggio senza costrizioni, che si preoccupasse solo di cinema, della sua arte e della sua tecnica. Il silenzio che è seguito al compito della rivista di Jean George Auriol – e che la sua morte ha addensato – è stato disturbato da migliaia di domande, provenienti da ovunque. Questi Cahiers vogliono rispondere. Riprendendo l’esempio paziente e inflessibile del nostro amico. Come lui, noi vogliamo che il cinema abbia un testimone fedele dei suoi sforzi più alti e più vitali, da dovunque essi vengano. È con questi Cahiers che questa testimonianza sarà depositata, con serenità e con rigore, e con quella fiducia che il cinema merita. UN cinema che sa regalare in poche settimane Le journal d’un curé de campagne (Francia), Christ in Concrete (GB), Un homme véritable (URSS), Sunset Boulevard (USA), Miracolo a Milano (Italia), Une poignée de riz (Svezia), Francesco Giullare di Dio (Italia) è, insomma, IL cinema».

Nel numero 15 (ottobre 1952) i «Cahiers» propongono i primi risultati di un’inchiesta sulla critica: su un centinaio di critici ai quali era stato inviato un questionario, le risposte tornate al mittente sono state trentanove, suddivise dalla redazione in tre categorie: i critici di prima della guerra, i critici del dopoguerra e i “giovani critici” (le virgolette sono della redazione dei «Cahiers»). La redazione stessa non si è espressa: al questionario mancano infatti le risposte di Bazin, Doniol, Kast, Astruc, così come mancano le risposte dei giovani de «La Gazette du cinéma»; la giovane critica è rappresentata soltanto da Rohmer, Richer e da Jean-Luc Godard. Le conclusioni dell’inchiesta alla fine risultano essere banali: la critica impressionista è ancora viva e vegeta, la pedagogia anima la maggior parte degli interventi, e i commenti sono tutti più o meno simili: «il critico è un educatore ed un informatore» (Henri Agel), «Il ruolo del critico è di guidare il pubblico verso buoni film» (Georges Sadoul). Nino Frank è forse il più lucido, secondo lui la funzione del critico è diventata «onorabile e sana», però «il rovescio della medaglia è la sua burocratizzazione e una perdita di capacità, d’entusiasmo, che corrisponde ad una certa fiacchezza generale del pubblico in rapporto al cinema. Ai tempi del muto, la “critica” era povera, ma quei venti o venticinque critici senza virgolette vivevano il cinema più della maggior parte dei loro colleghi di oggi». L’inchiesta si chiude con un intervento curioso di Simone Dubrueihl: «La forza profonda della critica è la sua responsabilità, la sua precarietà, la ridicolezza di cui essa si copre. In effetti finché essa si batterà vivamente in favore di un’opera, sarà con il gusto puro e semplice, idiota e meraviglioso di un martire».

Nel numero 21 (aprile 1953) compare l’ultima parte dell’inchiesta sulla critica cinematografica, ma soprattutto compare il primo articolo di un giovane critico portato ai «Cahiers» da André Bazin: François Truffaut. Come racconta lo stesso Truffaut, il momento decisivo in cui capisce di voler diventare un critico è quando prova l’esperienza di vedere più volte un film che ha amato: in quel momento capisce come sia «affascinante penetrare sempre più intimamente nell’opera che ci piace, fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione». Sei anni dopo il suo debutto nei «Cahiers du cinéma», Truffaut esordisce alla regia con Les 400 coups (1959), con il quale trionferà al festival di Cannes. Va detto che l’esperienza di François Truffaut non è proprio tipica o esemplare per quanto riguarda il critico medio, infatti, come sottolinea Pezzotta «non tutti considerano il proprio lavoro come un modo di “avvicinarsi sempre più al cinema”, o come un’anticamera della regia. (…) Di certo l’entusiasmo che Truffaut considera essenziale per fare critica è stato accuratamente represso da intere generazioni cresciute sotto l’ombra dell’ideologia».
L’arrivo di Truffaut ai «Cahiers» rappresenta una svolta nella storia della rivista: il giovane critico apporta un tono diretto e aggressivo, messo al servizio di una strategia di rottura e di conquista; il suo nome e quello dei “giovani turchi” (come venivano chiamati i collaboratori più combattivi) resterà nella storia come quello degli “hitchcock-hawksiani”. Se nei primi anni i «Cahiers» non hanno una linea editoriale ben precisa, con la nuova guardia la rivista ne trova una, fondata su una difesa senza tregua del cinema hollywoodiano, e su un attacco determinato al cinema francese dominante. Tra il 1953 e il 1956 avviene una sorta di guerra civile all’interno della redazione: da un lato la vecchia guardia rappresentata da Bazin, Doniol-Valcroze, Pierre Kast, Joseph-Marie Lo Duca), dall’altra i giovani Truffaut, Godard, Rohmer e Rivette. I “giovani turchi” non sono disposti a farsi trattare dai critici della generazione precedente con l’accondiscendenza che di solito si riserva agli scolaretti entusiasti, non ancora maturi e dai giudizi affrettati ed errati: «l’elemento di novità è proprio la politica stessa, la concezione della critica come luogo di usurpazione del potere di influenza sul mondo del cinema, spazio dove sono necessarie libertà di giudizio e assoluta sincerità, e dove intransigenza e assenza di diplomazia sono la regola». L’apice di questa “guerra di conquista” è stato la pubblicazione nel gennaio del 1954 di un articolo di Truffaut intitolato “Une certaine tendance du cinéma français”:

«Se il cinema francese esiste per un centinaio di film all’anno, si può dire che soltanto dieci o dodici meritano di ottenere l’attenzione dei critici e dei cinefili, l’attenzione quindi di questi Cahiers. Questi dieci o dodici film costituiscono quella che generosamente è chiamata la Tradition de la Qualité, che costringono con la loro ambizione l’ammirazione della stampa estera, difendendo due volte l’anno i colori della Francia a Cannes e a Venezia dove, dal 1946, fanno regolarmente razzia di medaglie, leoni d’oro e gran premi».

Truffaut continua l’articolo passando in rassegna tutto quello che rimprovera al cinema francese, concludendo così il suo lunghissimo scritto:

«È sempre bene concludere: fa piacere a tutti. È significativo che i “grandi” registi e i “grandi” sceneggiatori abbiano fatto tutti per molto tempo dei filmetti e che il talento che vi hanno messo non sia bastato a distinguerli dagli altri (che talento non ne hanno messo). È anche notevole che tutti siano arrivati alla qualità nello stesso tempo, come quando ci si passa un buon indirizzo. E poi, un produttore – e anche un regista – guadagna di più a fare Le blé en herbe che  Le plombier amoureux. I film “coraggiosi” si sono rivelati molto redditizi. La prova: un Ralph Habib rinuncia improvvisamente alla semi-pornografia, realizza Les compagnes de la nuit e dichiara di rifarsi a Cayatte. Ora, cosa impedisce agli André Tabet, ai Companeez, ai Jean Guitton, ai Pierre Véry, ai Jean Laviron, ai Ciampi e ai Grangier di fare, da un giorno all’altro, del cinema intellettuale, di adattare dei capolavori (ne resta ancora qualcuno) e, ovviamente, di aggiungere funerali un po’ dovunque?
A quel punto saremo fino al collo nella “tradition de la qualité” e il cinema francese, rivaleggiando in “realismo psicologico”, “asprezza”, “rigore”, “ambiguità”, sarà come un grande funerale che potrà uscire dallo studio di Billancourt per entrare direttamente nel cimitero che sembra esser stato messo apposta lì a fianco per passare più rapidamente dal produttore al becchino. Solo che, a forza di ripetergli di identificarsi con gli “eroi” dei film, il pubblico finirà proprio per crederlo, e il giorno in cui capirà che quel grassone cornuto pieno di disgrazie del quale è sollecitato ad aver compassione (un po’) e a ridere (molto) non è come pensava suo cugino o il suo vicino di pianerottolo ma proprio lui, e che quella famiglia abietta è la sua famiglia, quella religione sbeffeggiata la sua religione, quel giorno egli rischierà forse di mostrarsi ingrato verso un cinema che si sarà tanto dato da fare per mostrargli la vita come la si vede da un quarto piano di Saint-Germain-des-Prés. Certo, devo riconoscerlo, molta passione e anche molta prevenzione hanno influenzato questo esame deliberatamente pessimista che ho intrapreso a proposito di una certa tendenza del cinema francese. Mi si dice che questa famosa scuola del realismo psicologico doveva esistere perché potessero a loro volta esistere Le journal d’un curé de campagne, Le carrosse d’or, Orphéè, Casque d’or, Les vacances de Monsieur Hulot. Ma i nostri autori che volevano educare il pubblico devono capire che forse lo hanno deviato dai percorsi primari per avviarlo su quelli, più sottili, della psicologia, facendolo così passare nella classe sesta cara a Jouhandeau, ma devono anche capire che non si può far ripetere eternamente la stessa classe!».

L’articolo di Truffaut era preceduto da un editoriale di Jacques Doniol-Valcroze che aveva tentato, vanamente, di contrastare il pezzo del futuro regista. Il suo articolo ha finito infatti per rappresentare un punto fermo nella storia del cinema francese, ma soprattutto nella storia della critica cinematografica. Il bersaglio di Truffaut è il cinema del realismo psicologico, realizzato da Claude Autant-Lara, Jean Delannoy, René Clément, Christian-Jacque, Yves Allégret e Marcel Pagliero. In poche parole Truffaut argomenta con precisione e perfezione tutti i motivi per cui secondo lui il cinema francese non funziona, ritenendo che un cinema nuovo, diverso, sia possibile (che di fatto realizzerà lui stesso insieme ai suoi giovani colleghi dei «Cahiers»): per Truffaut c’è bisogno di far fuori il cinema del “realismo psicologico” per far sì che ci sia un cinema d’autore. Per i “giovani turchi” fare della critica cinematografica non era solo una disquisizione orale tra amici, ma un vero e proprio mestiere giornalistico: gran parte dei loro articoli costituivano un programma e una definizione di un cinema nuovo, la rivista si stava trasformando nel cuore pulsante di un nuovo movimento cinematografico, nei loro articoli si respirava ormai il profumo di una nuova concezione di cinema. In tal senso è esemplare la recensione che lo stesso Truffaut nel 1955 dedica al film Alì Babà (1954) di Jacques Becker, eccezionale dimostrazione di come la recensione di un critico possa trasformarsi in un manifesto cinematografico:

«Le circostanze hanno voluto che io vedessi due volte Alì Babà in una piccola sala senza atmosfera prima di rivederlo finalmente in una cornice molto più adeguata, una sera di Capodanno in mezzo ai cinquemila spettatori del Gaumont-Palace tra i quali – secondo Renoir – solo tre persone potevano “capire”. C’è bisogno di precisare che io mi sono annoverato subito tra questi tre eletti, arrivando a sospettare perfino dell’esistenza degli altri due? Alla prima visione, Alì Babà mi ha deluso, alla seconda mi ha annoiato, alla terza mi ha appassionato e incantato. Senza dubbio lo rivedrò ancora ma so bene che, superato vittoriosamente lo scoglio rischioso del numero 3, ogni film prende posto nel mio museo privato, molto ristretto. (Tra parentesi, se tutti i cinefili avessero visto tre volte L’isola di corallo, Il tesoro della Sierra Madre e La regina d’Africa ci sarebbero molti meno “hustoniani”.) Non è che rivedendo Alì Babà si capiscano o si scoprano più cose, come si può dire ad esempio della Carrozza d’oro, di Gli uomini preferiscono le bionde o di Casco d’oro, ma alla stregua dei musical (Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi e così via) l’ultimo film di Becker va conosciuto bene per essere apprezzato. Bisogna aver oltrepassato lo stadio della sorpresa, bisogna conoscere la struttura del film perché svanisca la sensazione di squilibrio avvertita all’inizio.
C’è una scena in cui Fernandel, dopo aver recuperato il suo pappagallo fuggito nella caverna e averlo rimesso in gabbia, riparte camminando prima molto in fretta e poi, bruscamente, in modo maestoso, con passo leggero e felpato. Questa incrinatura di ritmo, questa rottura del movimento, sottolineata abbastanza bene dall’interruzione nella musica e dalla sua ripresa su un tempo più lento, inducono immancabilmente al riso senza che la sceneggiatura intervenga, senza che si possa parlare propriamente di gag. Questa piccola notazione procura un piacere sempre vivo; rivedendo il film, ci si accorge che è il momento che si aspettava, con tanta più impazienza in quanto è un effetto di cui si aveva già, più o meno inconsciamente, provato la qualità. Questo fenomeno difficilmente analizzabile – lo si osserva di continuo nel corso della Carrozza d’oro, per esempio – si ritrova in tutte le inquadrature dello stupefacente Muftì, e nella scena in cui, sotto un solo martellante, Cassim e il capo dei ladri arrostiscono nelle loro gabbie . come lo Iago di Orson Welles – mentre una panoramica ci rivela un uccello che saltella sul terreno cocente, in cerca di un polla d’acqua per sopravvivere. Questi istanti, un po’ dispersi in Alì Babà, ci restituiscono a tratti la strabiliante e continua ricchezza di stile e d’inventiva nel dettaglio che appartiene al miglior film di Jacques Becker: Casco d’oro.
Ma non per questo i difetti – poiché difetti ce ne sono – si dileguano. Ne vedo parecchi e passo subito a elencarli prima di aggiungere gli elementi positivi. Un progetto di questo tipo richiedeva l’impiego di una determinata stilizzazione. Jacques Becker ha scelto la commedia buffa in un Oriente da Canebière. Da parte mia avrei preferito un adattamento convenzionale che si prestasse a trovate plastiche più ricche, per esempio il racconto volteriano – come non pensare alla danza di Zadig quando Fernandel si allontana dalla caverna, l’andatura appesantita dal peso delle ricchezze? – o, decisamente, avrei preferito un’illustrazione del racconto rigorosamente fedele al modo in cui lo raccontavano le nostre nonne e ispirata alle stampe di Epinal.
Ma non avviamo un processo interminabile e impossibile alle intenzioni; deplorata la bruttissima musica di Paul Misraki (un Van Parys avrebbe fatto più al caso nostro) prendiamocela un po’ con Henri Vilbert. I giurati di Venezia non si sono sbagliati quando gli hanno conferito non so quale “leone” di non so quale metallo. Potete esserne certi: chi interpreta un cornuto viene sempre incoronato. I giurati sono così… “comprensivi”. E poi, una parte da cornuto, fa molto psicologico. Ma un attore del genere, appena gli affidate una parte in cui deve muoversi, saltare, correre, si tira indietro: “Io recito in modo più interiore”; capirai! Vilbert è perciò un Cassim penoso: quando entra in scena, viene voglia di rifare l’inquadratura. Ecco i tre elementi che impediscono la riuscita completa del film: la sceneggiatura debole, poco rigorosa, la musica e Vilbert. Per essere il suo debutto nel colore, Becker se l’è cavata in modo ammirevole. E la regia? È di Jacques Becker, vale a dire che Alì Babà è insieme a Grisbì il film francese meglio realizzato dell’anno. Come La regola del gioco, Alì Babà termina in un inseguimento con battaglia. Questa scena straordinaria imprime al film un ritmo scapigliato che piacerebbe ritrovare in tutto il lavoro. Non dimentichiamo che Alì Babà è un po’ un film di Fernandel.
Fernandel non mi ha mai fatto ridere, e ancor meno piangere, ma il suo stile di recitazione è perfettamente “azzeccato” alla regia; le smorfie – delle quali è impressionante vedere, attraverso le reazioni del pubblico, a che punto siano dosate, misurate, cronometrate, interrotte – “cadono” inesorabili come le inquadrature e si concatenano splendidamente. Un lavoro simile, un mestiere simile, costringono, come direbbe Bazin, se non nell’ammirazione per lo meno al rispetto. È così che, con Fernandel, Becker è riuscito là dove avevano fallito Claude Autant-Lara (Arriva frà Cristoforo) e Yves Allégret (Santarellina). Al mio confratello Jean Aurel piace che un film sia prima di tutto un documentario sull’attore o l’attrice che interpreta il ruolo principale. In questo senso gli piacerà molto Alì Babà, ch è un documento straordinario su un monumento chiamato Fernandel. Anche se Alì Babà fosse mal riuscito, lo avrei difeso ugualmente in virtù della “politica degli autori” che i miei consimili nella critica e io stesso pratichiamo. Tutta basata sulla bella frase di Giraudoux: «Non ci sono opere, ci sono solo autori», essa consiste nel negare l’assioma, caro ai nostri predecessori, secondo cui vale per i film quello che vale per le maionesi, o vengono male o vengono bene. Passando da un argomento all’altro, giungeranno – i nostri predecessori – a parlare, senza perdere nulla della loro serietà, dell’invecchiamento sterilizzatore se non addirittura del rimbambimento di Abel Gance, Fritz Lang, Hitchcock, Hawks, Rossellini e perfino Jean Renoir nel suo periodo hollywoodiano. A dispetto della sua sceneggiatura triturata da dieci o dodici persone, dieci o dodici persone di troppo a eccezione di Becker, Alì Babà è il film di un autore, un autore giunto a una maestria eccezionale, un autore di film. Così, la riuscita tecnica di Alì Babà conferma la fondatezza della nostra politica, la “politica degli autori”.
P.S. Insieme ad Alì Babà viene programmato un cortometraggio straordinario da non perdere: Naufrage volontaire di Alain Bombard».

Appare significativo che Truffaut scelga come articolo-manifesto della “politica degli autori” la recensione di Alì Babà, un film sicuramente minore di Jacques Berger, come era considerato da gran parte della critica tradizionale: il punto è proprio nel fatto che per la politique non esiste un film minore, poiché l’opera di un regista va analizzata nel complesso della sua filmografia (come è scritto nell’articolo: non ci sono opere, solo autori), inoltre la messa in scena è considerata l’essenza stessa del cinema, un linguaggio universale attraverso il quale l’autore esprime il suo stile e le sue caratteristiche. L’aspetto innovativo e sicuramente specifico della “politica degli autori” è di aver applicato la categoria di autore su un terreno nuovo, in un campo in cui fino ad allora si era visto solo mercato, industria, mestiere: «e così, quei film che solo poco prima erano considerati prodotti di équipe, oggetti privi di reali tratti distintivi, segni evidenti di standardizzazione produttiva, diventavano la manifestazione diretta del talento individuale».

Tra il 1956 e il 1958 il paesaggio della critica cinematografica era definitivamente cambiato: al di là delle polemiche, il critico cinematografico è ormai diventato più serio, più responsabile nei suoi giudizi, più attento ai cambiamenti, non è più il critico ignorante attaccato da Truffaut ne “I sette peccati capitali della critica”. L’esempio dato dai «Cahiers» ha influenzato, direttamente o meno, tutte le generazioni a seguire: l’editoriale del primo numero di Positif (altra rivista fondamentale del periodo, ancora in attività) sotto il titolo “perché combatteremo”, termina con un saluto ai fratelli maggiori: «Les Cahiers du Cinéma», «Sight & Sound», «Bianco e Nero».
La figura del critico cinematografico, grazie ai «Cahiers», aveva finalmente trovato consapevolezza dei suoi compiti.

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