LA SITUAZIONE IN ITALIA: DAL DOPOGUERRA AGLI ANNI 90
Sono ben 102 le riviste di cinema che nascono tra il 1944 ed il 1948, molte delle quali rotocalchi popolari che condividono, in alcuni casi, le stesse firme: la critica, mischiata all’informazione (un po’ come avviene nei quotidiani di oggi) comincia a farsi labile e fievole. Sui quotidiani invece la figura del critico cinematografico continua ad essere sempre più forte: addirittura ogni edizione regionale de «L’Unità» aveva un suo critico. Attraverso il mestiere di critico passano molti grandi nomi della letteratura, del giornalismo e del cinema italiano: Ennio Flaiano, Fabio Carpi, Luigi Malerba, Dino Risi, Dino Buzzati, Indro Montanelli e Alberto Moravia (il quale dal 1955 diventa il critico titolare de «L’Espresso»). Se si facesse una lista con tutti i nomi di coloro che sono passati attraverso la critica cinematografica si noterebbe facilmente come quella del critico sia una figura dai mille volti, un mestiere dalle mille sfaccettature, al quale è possibile giungere attraverso strade disparate, e che sfocia in ruoli professionali di ogni tipo: la dimostrazione che per un critico cinematografico l’acquisizione degli strumenti del mestiere non necessita obbligatoriamente di una preparazione professionale accademica, trattandosi in molti casi di una derivazione naturale, uno sfogo letterario per tutti coloro i quali dispongono di un bagaglio personale composto dalle due componenti principali di cui abbiamo parlato in apertura: passione per la scrittura e passione per il cinema.
Nell’immediato dopoguerra emerge una nuova generazione di critici, tra i quali Ugo Casiraghi (storico critico de «L’Unità»), Callisto Cosulich («Il giornale di Trieste»), Tullio Kezich (già critico per «La Repubblica» e il «Corriere della Sera», da adolescente intratteneva una fitta corrispondenza come lettore con alcune riviste di cinema), Morando Morandini (oltre trent’anni di militanza per «Il Giorno») e Gian Luigi Rondi (dal 1947 critico de «Il Tempo»). Uno dei casi più particolari tra i critici dell’epoca è Guido Aristarco: «fonde le funzioni del teorico, del critico militante, del maestro e dell’arbitro del gusto».
Dal 1948 Aristarco è una delle personalità di punta della nuova serie di «Cinema», nel 1953 fonda «Cinema Nuovo», che diventerà una palestra per molte generazioni di critici. Nel frattempo «Bianco e Nero» riprende le pubblicazioni, mentre nel 1950 Edoardo Bruno fonda «Filmcritica», sulla quale trovano spazio voci dissonanti (soprattutto politicamente) come Pietro Bianchi, Gian Luigi Rondi, Luigi Chiarini, Glauco Viazzi, Carlo Lizzani, Giuseppe Turroni (una delle firme più fedeli e rappresentative). La rivista (tuttora in attività) si caratterizza sin dalla nascita per l’influenza della critica francese (la migliore al mondo in quel periodo), che spinge il mensile ad adottare una personalissima “politica degli autori”. Nel 1952 Fernaldo Di Giammatteo fonda la «Rassegna del film», raro caso di una rivista che cerca di seguire da vicino l’evoluzione dell’industria cinematografica italiana, analizzando senza snobismo l’esplosione del cinema popolare.
Gli anni Cinquanta per Filippo Sacchi e Mario Gromo rappresentano gli ultimi anni da critici quotidianisti, il primo nel 1954 diventa critico per il settimanale «Epoca», il secondo nel 1955 lascia «La Stampa»: Gromo morirà nel 1960, dopo aver pubblicato un’antologia delle proprie recensioni. Il linguaggio di Gromo è piacevole, chiaro ed essenziale: «le recensioni di Gromo, le sue “prose cinematografiche”, sono dei piccoli esercizi letterari». Lo stesso si può dire dello stile di Filippo Sacchi, ricco di gusto, passione e dai giudizi diretti ed inequivocabili. L’incipit della seguente recensione è un vero e proprio capolavoro letterario:
«Un’altra prova che al cinema conta soltanto una cosa: il cinema. Sì, un po’ come in amore conta una cosa soltanto: l’amore. Perché tutto è accessorio in paragone alla sola condizione importante, fondamentale: che ci sia una emozione vitale. E come, quando c’è questa, vediamo che nell’amore tutto il resto passa in seconda linea, e per quanto gli altri facciano e dicano, e cerchino di ostacolarlo, e gli portino prove, uno continua ad amare, anche se sa che sbaglia, che cagionerà infelicità agli altri e a se stesso; così per un film, le riserve, le obiezioni, gli appunti valgono finché non c’è cinema, ma quando c’è, tutto va a gambe levate, e non si domanda che di vedere».
Verso la fine degli anni Cinquanta sui quotidiani avviene una sorta di cambio della guardia dei critici, le vecchie generazioni lasciano il passo a nuove firme specializzate, che si fanno largo sulle testate più importanti: come detto Filippo Sacchi va a curare una rubrica sul settimanale «Epoca», Mario Gromo già dal 1955 lascia il suo posto a «La Stampa» a Leo Pestelli. Nel 1961 sul «Corriere della Sera» Arturo Lanocita viene sostituito da Giovanni Grazzini, il veterano Pietro Bianchi invece va a «Il Giorno», mentre la generazione emersa nel dopoguerra comincia a trovare un grande seguito su quotidiani e settimanali: Ugo Casiraghi è confermato a «L’Unità», così come sono da citare nuovamente gli ormai affermati Claudio G. Fava («Corriere Mercantile»), Tullio Kezich («Panorama»), Callisto Cosulich («Paese Sera»), Morando Morandini («La Notte») e Lino Micciché («Avanti!»).
Un caso curioso era quello di Giuseppe Marotta, il quale recensiva sulle pagine del settimanale «L’Europeo». Gli articoli di Marotta erano tra i più temuti dagli addetti ai lavori, come afferma Gianni Amelio: «Si racconta che negli anni Cinquanta, a ogni uscita settimanale dell’«Europeo», il cinema italiano tremasse. Produttori e registi, divi e sceneggiatori, scorrevano col batticuore le ultime pagine della rivista dove già un titolo del Marotta Ciak poteva innalzarli sugli altari o ferirli a morte». Le stroncature di Marotta, critico umorale, erano piuttosto celebri; non sfuggì alla sua perfida penna neanche il cinema di un autore come Michelangelo Antonioni, di cui Marotta fa letteralmente a pezzi un film importante come L’avventura (1960). Vediamo l’ultima parte della sua recensione, pubblicata nel 1960 su «L’Europeo»:
«Spettacolo? Sciocchezze. C’è una magnifica Sicilia, frugata palmo a palmo da un ottimo, geniale, operatore. Datemi l’una e l’altro e sono regista anche io. L’avventura, cioè, non offre la menoma soluzione del problema Antonioni. Gli dicono romanziere e non mette insieme che aneddoti; gli dicono psicologo e rimane alla superficie di ogni creatura; gli dicono letterato e, in fatto di linguaggio, è sulla paglia. Michelangelo, ti do un suggerimento fraterno: agguanta un copione di Zavattini, o di Suso Cecchi D’Amico, o di Ennio Flaiano, e attualo senza metterci, di tuo, che la indubbia conoscenza del mezzo cinematografico. Vedrai l’esito. Prego, non c’è di che».
A cavallo dei due decenni il cinema stava cambiando, nuove cinematografie stavano sorgendo in tutta Europa (sotto la spinta della Nouvelle Vague francese), la modernità cinematografica si stava velocemente diffondendo, e la critica stessa non poteva restare indifferente: i recensori cominciarono a scoprire le novità frequentando sempre di più i festival, capendo di dover affinare e rinnovare i propri strumenti di analisi. In questo periodo storico il cinema sta facendo un vero e proprio salto rispetto al passato, e i critici sono chiamati a mediare tra la trasfigurazione del reale trasmessa dal cinema moderno e il bisogno di comprensione da parte di un pubblico ancora legato ad un cinema tradizionale: «la critica quotidianistica ha una funzione di mediazione: rende familiare il moderno, smussandone gli spigoli, addomestica la radicalità di certi contenuti ricollegandola alle ragioni più alte dell’arte».
La nuova guardia dei critici cinematografici è una generazione «di interpreti di una critica professionale e autorevole, sempre più libera da dogmi estetici o ideologici (con l’eccezione, certo, dei quotidiani di partito), anche se di solito estranea al dibattito delle riviste». Siamo all’inizio degli anni Sessanta, si apre definitivamente il divario tra quotidianisti e specialisti, dunque tra critica giornalistica e critica teorica. In quest’ultimo ambito sorgono numerose tavole rotonde, in particolare la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (fondata da Micciché nel 1965) diventa un importante luogo di elaborazione teorica e di confronto tra critici (vi partecipano, tra gli altri, Roland Barthes, Christian Metz e Pier Paolo Pasolini):
«In realtà troppo spesso la critica mette in luce una sua carenza quasi strutturale di strumenti di analisi adeguati a ciò che il cinema è o sta divenendo. Essa è abituata da decenni all’esercizio di un mestiere singolare e per certi versi unico: per cui si trova a dover esporre ad uno stesso pubblico, dalla stessa sede, spesso con le stesse possibilità tecniche (di spazio, ad esempio, per quanto riguarda le pubblicazioni non specializzate) il più mediocre prodotto artigianale ed il più nobile e complesso dei capolavori. Non c’è da stupirsi se, il più delle volte, risulti impreparata ad un cinema nel quale il filone baraccone tende sempre più a separarsi dal filone espressione: se è chiaro che il metro per analizzare un film di Bergman è sproporzionato qualora applicato a Maciste alla corte dello zar, è altrettanto chiaro che il metro del giudizio riservato a Maciste alla corte dello zar è del tutto inadeguato per analizzare un film di Bergman».
C’è una nuova ondata di riviste cinematografiche: nel 1960 nasce a Roma «Cinema 60» di Mino Argentieri (molte le sue battaglie contro la censura), nel 1961 Bergamo dà i natali a «Cineforum», tra le più longeve riviste italiane, ancora oggi in attività. Nel 1966 sempre a Roma nasce «Cinema & Film», durerà soltanto quattro anni, ma eserciterà una notevole influenza, opponendosi alla critica “leggera” dei quotidiani, e posando lo sguardo sui meccanismi stilistici e linguistici del cinema. Nel 1967 a Torino nasce «Ombre Rosse», diretta da Goffredo Fofi, Paolo Bertetto e Gianni Volpi, secondo i quali il cinema deve prendere parte alla lotta politica e il critico dunque mettersi al servizio della rivoluzione sessantottesca. Un esempio di questo stato d’animo e di questa sorta di linea editoriale emerge attraverso le parole di Goffredo Fofi, che nella recensione di Week-end (1967) di Jean-Luc Godard, pone il problema estetico totalmente in secondo piano rispetto a quello politico, che è quello che interessa maggiormente il critico:
«Non ci addentreremo nelle asperrime straducole dell’esegesi godardiana, né nella scia delle interpretazioni-laudazioni maggiori che essa a ogni colpo (film) ripropone. Ci fermeremo a poche considerazioni generali, dando per scontato l’interesse del film, «uno sguardo stravolto sulle aberrazioni paradigmatiche del mondo attuale… progetto di metafora interpretativa di una realtà violentata e caotica» (Bertetto) e anche la sua sincerità di tentativo di rendere il disumano quotidiano con mezzi d’un libero ammucchiamento di furie negatrici e impazzite. La sua coppia di borghesi-cavallette interviene nel casino divorando ciò che incontra, autodivorandosi, preda di basse mitologia voraci del consumo, vorace aggreditrice di quanto capita a portata di mandibola (e naturalmente anche degli impotenti artisti senza più funzione se non d’idillio), e preda infine di voraci guerriglieri-hippies che possono distruggerla solo perché di essa più voraci o più “naturalmente” cannibali. La società industriale, la legge del consumo, l’alienazione del tempo libero, la civilisation du cul, hanno quel che si meritano. Ma questa conoscenza al negativo ha tanto più interesse quanto più lo sguardo che la osservi, partecipe certo, sia, oltre che non consenziente, profondo. E qui vengono le ragioni di rifiuto di questa operazione: sull’uso di Godard dell’irrazionale; sull’uso della previsione; e non tanto sugli strumenti quanto sul loro inquadramento nella testa del loro autore. Cioè: anche il negativo ha bisogno di un progetto, gioco-forza se ci si propone, come Godard sbandiera a ogni magnetofono, elucidazione-demistificazione-rifiuto della società contemporanea. Fermiamoci dunque intenzionalmente sull’ultima scena del film, quella della guerriglia in Seine-et-Oise, coi suoi hippies-pirañas e il suo canto al vieil océan («La grande famiglia universale è degna della logica più mediocre», Lautréamont). Ecco i nostri rilievi.
1. Pochissimi mesi dopo la realizzazione del film, non troppo lontano di là, a Flins, si sono effettivamente avute operazioni di guerriglia con lunga battaglia di giovani (studenti e operai) contro CRS. (Pochi mesi dopo la presentazione de La cinese, i giovani del Quartiere sono passati ai fatti e hanno scatenato una quasi-rivoluzione nonostante la nera previsione disfattista del Nostro; dopo Les carabiniers, alla sconfortante irrazionalità del gioco della guerra era possibile contrapporre la logica rivoluzionaria della guerra di popolo dei Viet; pochi mesi dopo Le petit soldat, l’FLN vinceva la partita contro i parà; e si potrebbe continuare). La capacità di previsione di Godard è davvero limitata (in realtà: falsata di prospettive perché reagisce alla irrazionalità apparente fermandosi al fenomeno e senza cercare di capire la logica e la direzione vere). Così una guerriglia nei dintorni di Parigi la si è avuta, ma dal contenuto ben diverso da quello immaginato dal regista.
2. L’irrazionale di Lautréamont, dato che è a questo tipo di irrazionale che Godard esplicitamente fa richiamo, nasceva, a suo tempo, in reazione a una società borghese razionale e positivista, e in questo trovava il suo valore; oggi, di fronte alla sistematica irrazionalità del capitale, superiore a ogni possibile pensiero di macello, alla perversione fatta sistema e il cannibalismo fatto legge, il sangue fatto aria che si respira, un’irrazionale “più enorme” di questo, più barbarico ancora, è illusorio, e privo di spinta eversiva, di autentica provocazione. Che si illustri la barbarie con tutto il grottesco e tutta la malvagità possibili, perché no? Che si inventi una barbarie più alta per contrastare la reale o indicarne la conclusione andrà bene per gli apocalittici pervicaci, ma è far cadere sul legno le mannaie, fare baubau al lupo mannaro: non spaventa il borghese che tanto va avanti zannuto alla sua morte come la coppia del film, prigioniero della sua stessa “logica”; e non impressiona neppure chi intenda reagire, e a cui si lascia il solo spazio negativo di una belluinità più “aperta”. Godard può anche avere in mente un “progetto” di un diverso possibile (ne dubitiamo, ché, se l’ha, è quello “poetico” lagrimante su sé che sgocciola di tanto in tanto dai suoi film) e volersi fermare di proposito al segno meno, ma così si destina da sé all’impotenza, con tutte le sue pretese di cinema d’intervento, se non ci fa il progetto avvertibile e se esso non fa lievito. Gli rinfacciamo insomma brutalmente un’utopia negativa che non ci concerne, a cui ci ribelliamo, come ovvio, non in nome di una nuova “razionalità” longo-kautskiana, o lecorbuseriana, ma di una più sana “irrazionalità” che rifiuta la ragione presente per una ragione “diversa” da ottenere attraverso l’elaborazione di un progetto (il socialismo) e l’attuazione di un piano (i mezzi adeguati per raggiungerlo, la strategia della rivoluzione). Di fronte alla incertezza che traversiamo, ci interessano e muovono “speranza militante” e “utopia concreta” (Bloch), radicate nell’esame e nelle possibilità che rispetto a esse individuiamo nella realtà. Solo su questa base è valido dissodare il terreno della previsione, e tanto peggio per chi finisce per compiacersi del prender parte al suicidio (questo senza rinascita) di tutta una civiltà».
Pur non trattandosi di una recensione “da quotidiano”, rivolta ad un pubblico generalista, l’articolo di Fofi è interessante per capire il modo in cui la figura del critico cinematografico anche in Italia aveva ormai preso piena coscienza di sé e del suo ruolo (in questo caso un ruolo politicamente impegnato al servizio dei movimenti radicali di fine anni Sessanta). Tra le riviste cinematografiche sorte in quel periodo di grandi fermenti, l’ultima, in termini cronologici, è «Cinema e Cinema», del 1974, che ospita nuove firme come Piera Detassis (dal 1997 direttrice di «Ciak») ed Emanuela Martini (alla guida di «Film TV» dal 1999).
Gli anni Ottanta, finite le lotte politiche, si aprono apparentemente in modo trionfale: la cinefilia diventa un fenomeno di massa, i media dedicano grande spazio al cinema (che si ristringerà sensibilmente nel decennio successivo) e le firme dei critici dei quotidiani raggiungono un’autorevolezza e soprattutto spazi che al giorno d’oggi sono pressoché spariti. Nel 1981 nasce una nuova rivista specializzata, il bimestrale «Segnocinema», nel 1984 invece esce una rivista di cinema popolare, il mensile «Ciak», ancora oggi la pubblicazione di cinema più venduta in Italia.
Con il passare degli anni le recensioni si accorciano, diventano più brevi, grazie ad un’idea lanciata dai settimanali (in particolare da Tullio Kezich e Tatti Sanguinetti su «Panorama») che trova subito terreno fertile sui quotidiani (grazie ai vari Marco Bacci, Paolo Mereghetti, Roberto Nepoti, Gianni Canova, Alberto Farassino, Giovanni Buttafava). Le recensioni brevi, da un lato limitano il cinema, lasciando spazi per altri argomenti (come la televisione), dall’altro permettono uno svecchiamento dello stile e anche del giudizio dei critici: ormai «la schedina firmata da un critico autorevole è la vera divulgazione cinefila per un largo pubblico: fa passare un atteggiamento critico senza inibizioni, spesso più ludico, e libera da ogni pregiudizio ideologico e contenutistico l’apprezzamento per il cinema americano e di genere». Giovanni Grazzini («Corriere della Sera») sembra essere uno dei pochi veterani a perseverare con lo stesso stile critico dei decenni precedenti, finendo inevitabilmente per sembrare rigido e sorpassato.
I germi della crisi però si fanno man mano più evidenti, il critico quotidianista è affiancato da cronisti che cominciano a parlare di tutto ciò che c’è intorno al film, intaccando le funzioni e l’autonomia del critico stesso. Lo stesso Grazzini aveva lanciato l’allarme su questa situazione, divenuta sempre più problematica negli ultimi due decenni del secolo: «Estendendosi l’area della società dello spettacolo, anziché estendersi le competenze, il cronista ha prevalso sul critico sin quasi a neutralizzarlo. Parallelamente alla sua resa pressoché quasi totale alla cultura del marketing, la grande stampa ha progressivamente ridotto gli spazi concessi al critico, soprattutto se dissidente dalle scelte redazionali». Le preoccupazioni di Grazzini trovavano d’accordo anche Callisto Cosulich, che nello stesso periodo descriveva i “guasti della cronaca” e la triste concorrenza tra i quotidiani sempre pronti a cavalcare l’ultima moda gonfiata dagli uffici stampa . In quest’ottica è doveroso citare un editoriale del 1906 apparso su «La Vita Cinematografica», dove il tenore della questione era di ben più nobile spessore: «La parte commerciale-reclamistica della Rivista è perfettamente estranea e separata da quella artistica: perciò è stolto pensare e pretendere che basterà ordinarci od intensificare la pubblicità a pagamento, per legarci le mani e metterci nell’impossibilità di dissentire in quello che noi crederemmo di non approvare». La legge del denaro qualche decennio più tardi ha fatto in modo che le cose non andassero esattamente così: il critico sembra sempre più impotente di fronte al continuo bombardamento di informazioni commerciali che circonda i film. Già negli anni Ottanta prende piede il fenomeno delle anticipazioni cinematografiche, in cui di un film dal successo annunciato se ne parla già durante la lavorazione, si parla dei giudizi seguiti alla premiere americana o alla presentazione in un festival, si sa praticamente già tutto ancor prima che il film arrivi sugli schermi: giunto il momento della recensione al critico viene così concesso uno spazio minimo, non essendo più il film in questione un argomento di attualità (fenomeno tutto italiano, visto che quotidiani come il francese «Le Monde» riservano al cinema molte pagine dove si parla addirittura anche di film d’avanguardia).
Morando Morandini, in una relazione del 1983 per la rivista «Cinecritica» , spiega come il critico di cinema sui quotidiani degli anni Ottanta sia costretto a cambiare pelle, di pari passo con il cambiamento degli spazi riservati al cinema:
«Mi limiterò a parlare del mio giornale. È vero che sul “Giorno” il settore degli spettacoli è ormai piuttosto anomalo, con un’impostazione diversa da quella degli altri quotidiani. Insomma, non è una pagina tipica, rappresentativa, ma qualche volta ho il sospetto che possa essere, diventare un modello per il futuro.
Prendiamo, come esempio, il numero di oggi. Gli spettacoli hanno due pagine e mezzo. Una pagina è dedicata interamente alla televisione. Nella mezza pagina che resta ci sono sei titoli: due sulla TV, due sulla musica, uno su uno spettacolo teatrale. Il sesto è una mia recensione di “Victor-Victoria”. Badate: il numero di oggi è la regola, come suddivisione dello spazio, non l’eccezione. Questo spazio, inoltre, “Il Giorno” l’ha soltanto per tre giorni su sette della settimana. Negli altri quattro giorni la mezza pagina non c’è: c’è soltanto la pagina sulla TV e la pagina dei tamburini con una striscia, più o meno alta, da occupare con gli altri settori dello spettacolo: teatro, cinema, musica ecc».
La relazione di Morandini continua, entrando nel dettaglio a proposito degli articoli sui film, fino a giungere ad una constatazione inevitabile:
«La critica è subalterna all’informazione. Esistono al “Giorno” precise disposizioni scritte che delimitano la lunghezza media di una recensione critica a 30 righe; si può arrivare a 50 righe soltanto in casi eccezionali. (…) La mia domanda è: “Il Giorno” interpreta in anticipo una linea di tendenza? È ormai incontestabile che lo spettacolo cinematografico è passato in seconda o terza fila nella gerarchia dei divertimenti di massa. Gli succede quel che è successo al teatro mezzo secolo fa; la stagione d’oro del cinema è stata culla degli anni Cinquanta, cioè il periodo in cui i critici e giornalisti della mia generazione hanno cominciato».
Secondo Morandini anche la stessa mutazione del modo di fruire un film (influenzata dall’egemonia della fruizione televisiva) ha modificato gli spettatori, una mutazione che la figura stessa del critico cinematografico farebbe bene a tener presente:
«Ho il sospetto che dovremmo inventare, trovare nuovi modi di far la critica sui giornali. (…) Oggi, però, c’è un nuovo fenomeno. Mentre diminuisce lo spazio che si dedica al cinema nelle pagine degli spettacoli, è aumentato quello che i maggiori quotidiani – Il Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica – dedicano ai festival di Cannes e di Venezia: sono pagine intere con due, tre, quattro inviati. Poi succede sul “Corriere della Sera” che quando a Milano o a Roma escono “La notte di San Lorenzo” o “Identificazione di una donna”, Grazzini non rifà più la critica, ma la condensa in poche righe, rimandando a quel che aveva scritto da Cannes o da Venezia, come se i lettori avessero schedato i suoi articoli. In altre parole: c’è in atto una mutazione – antropologica e non – anche nel nostro mestiere. Perciò qualche volta ho il sospetto che quella del critico, del recensore quotidiano, sia una specie d’animale in via di estinzione».
Le preoccupazioni di Morandini del 1983 non erano prive di fondamento: nel corso degli anni Novanta sui quotidiani gli spazi dedicati alle recensioni si sono definitivamente assottigliati, mentre i dati di vendita delle riviste specializzate si stabilizzano su livelli piuttosto bassi. Molte pubblicazioni chiudono o diventano praticamente invisibili, le uniche riviste a nascere sono «Film TV» nel 1992 e «Duel» («Duellanti» dal 2003) nel 1993, diretta da Gianni Canova. La critica quotidianista perde sempre più prestigio e importanza, anche a causa del boom di blog, forum e newsgroup su internet, un fenomeno che da un lato squalifica la critica, facendole perdere autorevolezza, ma che al tempo stesso «ricrea quell’effetto di comunità, di discorso condiviso e di attivazione di una memoria sociale, che era stata una delle caratteristiche della cinefilia storica francese». Il cinema continua a cambiare, sorgono nuovi modi di fruizione: siamo negli anni Duemila, e anche la figura del critico cinematografico continua la sua trasformazione.