Recensione “Silent Souls” (“Ovsyanki”, 2011)

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Un piccolo trattato di antropologia immerso nell’atmosfera algida di una Russia innevata e desertica, silenziosa e vuota. Lo stesso vuoto alberga nello spirito di due protagonisti intrappolati nel dolore di un lutto, al quale rispondono sostenendosi l’un l’altro, abbracciandone i silenzi, inseguendo una tradizione quasi sepolta ma ancora viva: quella della cultura Merja, un’antica tribù del lago Nero, i cui rituali affiorano ancora nella vita dei loro discendenti.

In seguito alla morte dell’amata moglie, Miron decide di darle l’estremo saluto seguendo la tradizione della cultura Merja. Per farlo chiede aiuto al suo vecchio amico Aist, con cui intraprende un viaggio lunghissimo attraverso una Russia irreale, sconfinata. Lungo la strada Miron ripercorre i luoghi e i ricordi condivisi con la moglie, svelando lentamente i segreti più nascosti.

La pellicola di Aleksei Fedorchenko si fa amare nei suoi grandi silenzi (la preparazione del corpo della donna e la cremazione in riva al lago sono due momenti altissimi di cinema), ma si compiace troppo di una voce fuori campo talvolta invadente, didascalica e per forza di cose non sempre necessaria. Ogni suo vuoto è però riempito dal fascino della cultura Merja e soprattutto da un’atmosfera senza tempo, una Russia glaciale che in qualche modo pare essere una sorta di corrispettivo fisico e spaziale dei due protagonisti. Più che un estremo addio il film è un’infinita dichiarazione d’amore: come recita il sottotitolo italiano, “soltanto l’amore non ha fine”.

Silent souls

pubblicato su Livecity

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