Recensione “Forza maggiore” (“Force majeure”, 2014)

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Si tratta di forza maggiore qualsiasi energia esterna contro la quale il soggetto non è in grado di resistere e che perciò lo costringe necessariamente ad agire, in un modo o nell’altro. Ad esempio una valanga, una massa di neve che improvvisamente si mette in moto su un pendio e che precipita verso valle a causa della rottura della condizione di equilibrio presente all’interno del manto nevoso. Una valanga, dicevamo, può essere intesa come quella forza maggiore che costringe il soggetto all’azione. Se consideriamo che durante la discesa la valanga può coinvolgere altra massa nevosa assumendo così dimensioni via via maggiori, la metafora con un matrimonio può sembrare calzante: è questo che capita a Tomas ed Ebba, marito e moglie, in vacanza sulle Alpi insieme ai due bambini. Una causa accidentale (una valanga, appunto, anche se innocua) è il pretesto che sembra segnare l’inizio di una profonda crisi nel rapporto tra i due, all’apparenza felice. La crisi comincia con quella che sembra una piccola crepa, ora dopo ora assume però dimensioni sempre maggiori, piombando a valanga, è il caso di dirlo, sulla vita di Tomas ed Ebba. Nel momento del presunto pericolo, Tomas è fuggito spaventato senza pensare neanche un momento alla moglie e ai figli, rimasti immobili, e terrorizzati, al proprio posto. Ebba comincia a vedere in maniera diversa l’uomo che è al suo fianco, che dovrà lottare contro se stesso per riconquistare il suo ruolo di padre e marito.

Nella vita quotidiana, in relazione al nostro rapporto con gli altri, indossiamo tutti una certa maschera, siamo “quel” personaggio e in un certo senso ci si aspetta di agire in una maniera piuttosto che in un’altra. Allo stesso modo Tomas è padre e marito, ci si dovrebbe aspettare da lui un certo eroismo nei confronti della famiglia, protezione, perché il suo ruolo gli impone di infondere sicurezza. Il modo in cui si comporta, inaspettato anche per lui, fa crollare il suo matrimonio e la propria autostima. La bravura di Ruben Ostlund, il regista, è nella capacità di insinuare il dubbio dentro noi stessi: come ci comporteremmo noi in una situazione del genere? Lo fa con una pellicola esteticamente affascinante, tecnicamente ineccepibile, elegante nella messa in scena grazie ai suoi sobri e quasi impercettibili movimenti di macchina. Un dramma psicologico dove è difficile schierarsi da una parte o dall’altra, fino alla catarsi conclusiva, dove l’essere umano per un istante mette via quella maschera, condividendo un piccolo momento sul cammino empatico della solidarietà.

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