Recensione “Mistress America” (2015)

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Se con il meraviglioso “Frances Ha” Noah Baumbach e Greta Gerwig erano riusciti a scrivere, con leggerezza ed ironia, una sorta di manifesto dei trentenni di oggi, stavolta il duo più apprezzato del cinema indie statunitense completa la ricerca su questa generazione a metà strada tra desiderio e fallimento, con una pellicola capace senza troppi fronzoli di raccontare l’imperfezione degli esseri umani e soprattutto il confronto tra una generazione che vuole essere accettata e un’altra che non vuole sentirsi superata, attraverso la mancanza (?) di talento, il bisogno di raccontarsi, di esistere (con una strizzatina d’occhio ai social network, simbolo di una generazione che sente il bisogno costante di essere connessa a qualcosa di indefinito, a qualcosa che possa confermare il suo stato di esistenza).

La diciottenne Tracy è appena arrivata a New York per cominciare il college, dove però non riesce pienamente a inserirsi. Il suo sogno è entrare in un prestigioso club letterario ma i suoi racconti non sono ancora all’altezza. Spinta dalla madre, che sta per risposarsi con un altro uomo, Tracy decide di incontrare la trentenne Brooke, sua futura sorellastra. Brooke la trascina per una folle notte tra i locali di Manhattan, permettendo a Tracy di trovare il personaggio ideale per il suo nuovo racconto. Brooke è vulcanica, umorale, instancabile, alla continua ricerca di un posto nel mondo: canta in una band, fa ripetizioni ai bambini di una famiglia ricca, fa l’istruttrice in palestra e sta cercando finanziamenti per aprire il ristorante dei suoi sogni. Proprio per questo le due future sorelle, in compagnia di un compagno di college di Tracy e della sua gelosissima fidanzatina, si imbarcano in un viaggio verso il Connecticut: Brooke deve convincere il suo ex e una vecchia amica, la moglie di lui, a investire denaro in questa nuova, pazza, impresa di Brooke.

Se Manhattan è confusa, frenetica e sembra capace di inghiottire i suoi personaggi, il Connecticut al contrario è il terreno dove si scatenano le gag umoristiche più riuscite, in un crescendo di divertimento, risate e assurdità. Baumbach si conferma un profondo indagatore della società dei trentenni di oggi, alcuni ancora legati ai sogni di anni passati, altri totalmente immersi nel loro ruolo nella società ma che guardano al passato con un pizzico di nostalgia (perfetto in tal senso il personaggio di Dylan). Un gioiello del nuovo cinema statunitense, talmente brillante da sembrare a tratti frutto del genio di Woody Allen (“Me ne vado a Los Angeles per sentirmi intellettualmente superiore” è solo una delle tante battute riuscite). Il tempo passa per tutti, ma è sempre meraviglioso trovare ancora pellicole capaci di raccontarci, tra una risata e un abbraccio.

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