Recensione “Neruda” (2016)

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“Confesso che ho vissuto”: così Pablo Neruda intitolava la sua autobiografia, la storia di una vita incredibile, tra le strade fangose del sud del Cile durante la sua infanzia, fino agli incarichi diplomatici in giro per il mondo (Birmania, Spagna, Francia), passando per il Premio Nobel per la letteratura e le ambizioni politiche. Di questa vita fuori dall’ordinario, il maestro Pablo Larrain (in questi giorni sugli scudi dopo il successo veneziano del suo ultimo film, “Jackie”) decide di raccontare soltanto un piccolo ma immenso frammento: il periodo della clandestinità e della fuga. Siamo nel 1948 e il governo cileno presieduto da Gonzalez Videla viene accusato da Neruda di aver tradito il popolo (e il partito comunista cileno, che subito dopo è stato messo al bando e dichiarato illegale). Il celebre “Yo acuso”del poeta è un lungo monologo in difesa della democrazia, motivo per cui a Neruda viene tolta la carica di senatore e dichiarato fuorilegge. Sulle orme del poeta, mandato di arresto in mano, c’è il prefetto Oscar Peluchonneau, suo persecutore per tutti i lunghi mesi della fuga.

Larrain racconta la sua storia attingendo a piene mani dal noir e dal genere poliziesco anni 40, delineando il film secondo le tracce tipiche del genere, con i suoi archetipi e i suoi cliché (la fotografia ricca di ombre e contrasti, la musica a sottolineare i momenti di tensione), trasformando un film in una sorta di romanzo poliziesco per immagini, con il suo personaggio principale (il poeta, il comunista, il difensore dei diritti umani Pablo Neruda) e la sua nemesi, un personaggio secondario che ambisce a diventare protagonista (in quest’ottica il finale, che ovviamente non sveleremo, è meraviglioso). Come ha affermato lo stesso Larrain, non si tratta di un biopic su Neruda, è piuttosto un film “nerudiano”, un romanzo che sarebbe stato bello far leggere a Neruda.

Punto di forza del film, interpretazioni a parte, è proprio il contrasto tra Neruda e Peluchonneau, in cui l’uno si nutre dell’altro per reinventare se stesso, l’uno per sentirsi finalmente il degno erede di una leggenda della polizia locale, l’altro per ergersi a simbolo di libertà e al tempo stesso leggenda della letteratura (è proprio nel periodo raccontato dal film che Neruda scrive una delle sue opere più intense, “Canto General”). Larrain si conferma uno dei massimi esponenti del cinema mondiale, riuscendo a realizzare pellicole che, parlando della storia del Cile (come “Tony Manero”, “No” o “Il Club”), riescono ad esprimere concetti fondamentali e senza dubbio universali.

“Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Scrivere, per esempio. “La notte è stellata,
e tremano, azzurri, gli astri in lontananza”. E il vento della notte gira nel cielo e canta”.

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