I titoli di coda sono accompagnati dalle note di “The Masterplan”, in cui la voce di Noel Gallagher chiede al fratello Liam di prendere le cose come vengono, perché non c’è modo di sapere cosa accadrà in futuro. C’è un progetto, un piano superiore, un destino al quale appartengono. Un destino che nel film viene citato più volte da Liam e Noel. Il ritornello è struggente ma anche emozionante, soprattutto se nelle due ore precedenti hai assistito alla scalata verso il successo dei Caino e Abele del rock. Lo ammetto, si sono affacciate delle lacrime in quel momento, perché il trentacinquenne che vi scrive oggi, a quei tempi era un adolescente tormentato che ha vissuto gli Oasis sulla propria pelle. Il primo cd che ho comprato in vita mia è stato “What’s the Story Morning Glory” e al liceo avevo uno zaino Invicta sul quale avevo scritto con un pennarellone nero il logo OASIS. Gli anni 90, i miei anni 90, si sono abbattuti su di me con l’impeto e la carica esplosiva della band di Manchester: è stato un viaggio nei ricordi e nella nostalgia, ma parliamo anche di un film di grande valore, cercherò di spiegarvi il perché.
Nell’agosto del 1996 gli Oasis suonano a Knebworth davanti ad un pubblico di quasi trecentomila persone: si tratta dell’evento musicale più seguito di quell’estate. Soltanto tre anni prima gli Oasis esordivano sulla scena musicale britannica. Cosa è successo in quei tre anni? Il documentario di Mat Whitecross ce lo racconta in maniera schietta e un po’ fuori di testa, in perfetta linea con lo stile della band. Ci sono immagini di archivio assolutamente preziose, con le prime registrazioni di questo gruppo di amici provenienti dalle case popolari di Manchester. Ci sono aneddoti memorabili, molti dei quali anche piuttosto divertenti (come si può non ridere di fronte alle frecciatine continue dei fratelli, delle loro litigate a colpi di mazze da cricket e cassonetti, o dei loro deliri di onnipotenza?): la storia di quando Noel fa ascoltare per la prima volta “Live Forever” alla band di Liam e nessuno crede che abbia davvero scritto una canzone così bella è solo uno dei tanti aneddoti che arricchiscono il documentario di quell’alone di leggenda che gli Oasis inevitabilmente si portano dietro.
All’inizio del film Noel Gallagher afferma che “gli Oasis sono come una Ferrari: bella da vedere, bella da guidare, ma se vai troppo veloce finisci per perdere il controllo”. Le sue parole saranno profetiche: la band, come spesso accade nel mondo della musica, viene risucchiata dal successo, lo showbiz la mangia e la mastica, e quel gruppo di amici che voleva soltanto fare musica, fumare erba, bere birra e incontrare qualche ragazza, si ritrova al centro di un ciclone mediatico che non ha scrupoli nel sfruttare la storia del padre violento in cerca di perdono o le loro dichiarazioni provocatorie a proposito dell’uso di droga nel Regno Unito. Noel, anima del gruppo, è ancora profeta nell’affermare che tutto questo passerà, tutte le voci, le chiacchiere, le “rotture di palle” finiranno e ciò che resterà nel futuro saranno soltanto le loro canzoni.
Centrale nel documentario, non poteva essere altrimenti, è il rapporto tra i fratelli Gallagher, di come i loro contrasti siano stati decisivi per lo scioglimento della band, anche se Liam afferma che i conflitti tra loro due sarebbero emersi qualunque fosse stata la loro strada: “Se nella vita avessimo fatto i pescatori magari ci saremmo lanciati addosso le trote”. La bravura di Whitecross nel raccontare emerge nell’incredibile empatia che può provare uno spettatore comune con quella che è stata probabilmente la band più famosa degli anni 90: sono dei ragazzi di strada, che si ritrovano catapultati davanti a migliaia di persone che cantano le parole che Noel magari ha scritto alle 3 di notte mentre era su un aereo, e che ballano canzoni che sono nate mentre gli altri membri della band erano usciti un momento per comprare del cibo cinese. Quel concerto a Knebworth ha un che di malinconico: è l’apice del successo per gli Oasis, ma forse anche la fine dell’anima reale della band, il turning point che trasforma il sound grezzo e appassionato di quattro ragazzi nella macchina da soldi di uomini rancorosi, stanchi, che senza neanche accorgersene hanno venduto l’anima al diavolo dell’industria discografica. C’è qualcosa negli occhi di Liam quella notte (scena bellissima), c’è uno sguardo sul pubblico impazzito che rivela molto più di decine di canzoni. Tra le righe c’è una bella riflessione sull’era digitale, a quei tempi ormai alle porte: pochi anni dopo sarebbe arrivato Internet, Napster e subito dopo i concerti registrati su telefono, messi su YouTube, talvolta addirittura in tempo reale su Periscope, dove la magia di vivere un evento storico si sarebbe persa per sempre nella condivisione massiccia e ossessiva. Gli Oasis sono stati forse l’ultimo grande gruppo rock che abbiamo dovuto cercare in radio o in tv per sperare di poter sentire il loro nuovo singolo, l’ultimo grande gruppo rock prima dell’era del masterizzatore, dell’MP3, delle riproduzioni di massa. C’era una magia in tutto ciò, la musica aveva un valore diverso quando riuscivi ad ascoltare la canzone che amavi inaspettatamente, senza trovarla a portata di clic. Ma forse queste sono le parole di un vecchio fan nostalgico, catapultato in un’età adulta per la quale non si sente ancora pronto, dove i Talent e i Reality hanno cancellato quel poco di bellezza che c’era nella musica di una volta. Ma da qualche parte, in un bar di Berlino, in un pub di Londra o in qualunque altra parte del mondo, ci sarà sempre un gruppo di amici che suona le proprie canzoni, tra una birra e l’altra, lasciando accesa quella scintilla che nessuna industria potrà mai cancellare. Mi sono dilungato, i ricordi hanno avuto la meglio, la mia adolescenza è tornata al suo posto, nella memoria. …But don’t look back in anger, I heard you say.
gli oasis sono stati l’ultimo grande fenomeno musicale della storia….paradossalmente la forza della musica e del talento vero è finito quella sera a Knebworth….
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comunque l’aneddoto della Ferrari è narrato da Liam.
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