Recensione “Roadies” (2016)

Roadies

Parliamo di “Roadies”, ovvero: come innamorarsi di una serie tv e continuare a seguirla pur sapendo che è stata cancellata dopo una sola stagione. Cameron Crowe è una delle poche persone nel mondo del cinema capace di stamparmi un sorriso sul volto ogni volta che realizza qualcosa (sì, compreso il bistrattatissimo “Sotto il cielo delle Hawaii”): mi fa innamorare delle persone, mi fa venire voglia di essere amico di quelle persone, mi fa sentire parte di qualcosa di bello, divertente, dolce e al tempo stesso unico. Tutti motivi per cui ho amato questa serie, ai quali va aggiunto l’ingrediente fondamentale, la cosa che più mi piace e probabilmente anche il “difetto” fatale della serie: l’amore per la musica. Perché difetto? Perché se da un lato una persona come me, innamorata della musica, troverà proprio in questo elemento il cuore della passione per una serie incentrata sul lavoro di quei tecnici che si occupano di tutti gli aspetti necessari ad un concerto per far sì che la band si possa esibire, dall’altro uno spettatore meno appassionato potrebbe trovare ridondanti e forse esagerati tutti i momenti in cui è la musica il collante umano che lega i personaggi e le vicende di “Roadies”: dalla “canzone del giorno”, una trovata strepitosa, ai vari camei di band e artisti più o meno minori sulla scena indie statunitense, i roadies del titolo per Crowe sono solo il pretesto per raccontare ancora una volta ciò che lui ama più di qualunque altra cosa, forse più del cinema stesso: la musica (come fece, meravigliosamente, in quel capolavoro di “Almost Famous”).

Un cast spettacolare dal punto di vista emotivo, se così si può dire: da Luke Wilson a Carla Gugino, da Imogen Poots a Rafe Spall, tutti gli attori non sembrano interpretare personaggi di fantasia, ma conferiscono al gruppo le sfumature necessarie a permetterci di immergerci nella crew, a farci sentire parte di loro, a farci sognare un’esperienza del genere. E chi se ne importa dei cliché raccontati da Crowe, dalla aneddotica, dalle scaramanzie, dagli accenni di retorica (come la corsa di Kelly Ann nel pilot, in cui ha una sorta di epifania musicale: sarà retorica ma funziona a perfezione). Splendida l’idea di base di ambientare ogni episodio in una città diversa del tour, respirando il mito di chi in quella città ha fatto la storia, mostrandoci solo il lato buono dei personaggi (come spesso accade nei film di Crowe). La musica unisce, la musica crea la magia. Questo, dicevamo, è il punto di forza e al tempo stesso il punto debole di “Roadies”: sembra scritto per chi la musica la ama fin dentro le viscere, ma per un successo globale questo è probabilmente troppo poco.

Tanto idealismo e buoni sentimenti, ma tutto realizzato con così tanta passione che è davvero molto difficile non ritrovarsi con un sorriso stampato sul volto al termine della stagione, purtroppo l’unica. La dichiarazione d’amore di Cameron Crowe per chi ama la musica è una vera e propria fonte di gioia: per quel che mi riguarda può bastare anche vedere Luke Wilson tornare nella sua vecchia casa, attaccare la spina della radio e sentire le note di “Radio Nowhere” di Springsteen che avvolgono tutta la scena. Per non parlare del racconto on the road di Phil a proposito del concerto dei Lynyrd Skynyrd quando hanno aperto il tour dei Rolling Stones. Tutte cose da far impazzire un amante del rock, ma saranno così interessanti anche per chi usa la musica non come colonna, ma solo come sottofondo della sua vita? A quanto pare no, visto la decisione della rete di cancellare la serie: “Grazie a Showtime e J.J. Abrams per avermi permesso di fare questa sola e unica stagione di Roadies, ha detto il regista in un comunicato. “Ho ancora le vertigini per aver lavorato con un cast e una troupe così epici. Sebbene avremmo potuto raccontare altre mille storie, questa corsa si conclude con un racconto finito di musica e amore lungo dieci ore. Come una canzone che ti entra nelle vene, o un testo che parla di te, ci auguriamo di aver fatto lo stesso con Roadies“. 

Cameron, amico mio, “Roadies” per me è esattamente questo: è una canzone che entra nelle vene, un testo che parla di me (la scena in cui Wes suona “Simple Man”!). Talmente bello da farti pensare: ma perché non ho fatto questo lavoro nella vita?

roadies

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