E anche quest’anno siamo qui. Nel 2006, quando tutto questo cominciava, indossavo il mio primo pass da fresco Campione del Mondo (“Andiamo a Berlino, Beppe!”), Totti aveva appena compiuto 30 anni, io stavo cominciando la specialistica all’università e nessun mio amico era ancora sposato o aveva figli. Mamma mia. Ora, arrivato alla dodicesima edizione, mi rendo conto di quanto in fretta sia passato il tempo e soprattutto mi giunge la consapevolezza che invece di trovarmi un lavoro vero sto ancora qui all’Auditorium, a scattare foto e guardare film. Prima o poi pagherò caro tutto questo, io già lo so. Nel frattempo, eccomi qua, a raccontarvi la dodicesima Festa del Cinema di Roma come nessun altro (per vostra fortuna).
Come ogni anno (o almeno, come ogni anno da quando non vivo più a due passi dall’Auditorium, ma dall’altra parte di Roma) prendere i mezzi per arrivare al Parco della Musica ti fa capire che, comunque vada, non ci sarà mai nessun film tanto brutto quanto fare il cambio della metro a Termini, soprattutto da quando l’Atac ha deciso di ridurre le corse della metropolitana (grazie, senza di voi non saprei proprio di che lamentarmi). Va bene, ho già scritto decine di righe e non ho ancora cominciato a parlare di cinema: se avete resistito fin qua vi assicuro che d’ora in poi la strada sarà in discesa.
Ore 11: primo film del primo giorno, sempre una grande emozione ricordarsi quanto siano scomodi i seggiolini della Sala Petrassi (grazie Renzo Piano). Dopo aver ritirato il pass e aver abbracciato qualche amico che durante l’anno purtroppo vedo troppo poco, eccoci davanti allo schermo per “Hostiles”, di Scott Cooper. Posso dire subito che si tratta di un buon inizio per il Festival e Cooper può sperare anche nella tradizione: lo scorso anno ad aprire ci fu “Moonlight”, che qualche mese dopo vinse l’Oscar per il Miglior Film (oltre che quello per il migliore scippo). Christian Bale è un capitano di fanteria americano che ha sempre messo passione nel suo lavoro, ovvero uccidere gli indiani (siamo nel 1892): essendo uno dei migliori soldati a disposizione, i suoi capi gli affidano il compito di riportare un’importante famiglia di nativi nelle loro terre, nel Montana. Questi escono ora di prigione dopo sette anni e Bale, che li vorrebbe sgozzare nel sonno un giorno sì e l’altro pure, è costretto ad accettare l’incarico. La convivenza forzata tra la famiglia di Yellow Hawk (il nativo) e la squadra di Christian Bale si trasforma, lungo la strada, in un’amicizia segnata da stima e rispetto reciproco, anche perché gli ostacoli non saranno pochi. Lungo il cammino raccattano pure Rosamund Pike, rimasta vedova proprio a causa di un gruppo di indiani, che sarà fondamentale per la trasformazione psicologica del Capitano Bale. Un buon film dicevamo, anche se, dopo un capolavoro come “Balla coi Lupi”, ogni tentativo di raccontare una storia di convivenza tra soldati e nativi americani deve comunque fare i conti con il miglior film possibile sull’argomento.
All’uscita della sala ci cascano addosso due brutte notizie, una dopo l’altra: la prima è che è saltata la conferenza stampa di Christoph Waltz, motivo per cui per incontrarlo dovrò sperare in qualche posto libero in sala durante la chiacchierata con il pubblico. La seconda notizia, una tragedia, è che Karsdorp si è rotto il legamento crociato (ok, capisco che la cosa non sia strettamente cinematografica, ma se leggete questo blog da un po’ di tempo saprete bene che la mia vita da cinefilo è inevitabilmente contaminata dalla mia vita da tifoso, la mia vita da musicofilo, la mia vita da fotografo, la mia vita da cazzeggio e tutte le altre). Saltato Waltz, oltre al crociato del buon Rick, ho ripiegato sulla conferenza stampa di “Hostiles”. Rosamund Pike si è messa addosso il red carpet, un lungo vestito rosso infatti la mimetizzava con le poltrone.
Nel pomeriggio, in parte a causa di un abbiocco psicologico post-pranzo, ho saltato la proiezione del film d’animazione “The Breadwinner”, prodotto da Angelina Jolie. In compenso ho saputo dalle vecchie care voci di corridoio che si tratta di un buon film (e che durante la proiezione nella nuovissima Sala Google si aggirava un piccione in volo). Alle 17.10 circa è arrivato Christoph Waltz, con il suo sorriso di ghiaccio e il suo faccione allegro: veniva davvero voglia di offrigli un bicchiere di latte fresco (o al massimo uno strudel con panna). Il primo caso del Festival è avvenuto all’ingresso della sala, con alcune persone dotate di biglietto (arrivate però in ritardo) costrette a restare fuori poiché la sala era ormai piena. Qualcosa che nei prossimi giorni andrà sistemata, perché chi compra il biglietto non può restare fuori, no? Tra le altre cose anche io ho cercato di ottenere un biglietto dall’ufficio stampa del Festival ma appena l’ho avuto hanno chiuso l’ingresso in sala, che culo. Mi sono fatto una risata, anche perché l’alternativa era mettersi in fila con gli accreditati, una fila che arrivava dalle parti di Ponte Milvio. Per fortuna che in tutto questo tran tran ho rimediato un pezzo di torta di mela, quindi siamo riusciti comunque a dare un senso al pomeriggio.
Per passare il tempo in attesa della mia proiezione serale ho camminato su e giù per l’Auditorium: ho visto un tizio travestito da Donald Trump (mi dicono dalla regia che era un inviato di Striscia la notizia), un ragazzo suonare “Bohemian Rhapsody” al pianoforte dell’ingresso (messo là a disposizione di tutti, o almeno di chi lo sa suonare), ho fatto merenda con un cappuccino da Tiffany (ovvero il bar stesso, praticamente una gioielleria visti i prezzi) e dunque mi sono appostato sul Red Carpet per la passerella di “Hostiles”, anche perché Rosamund Pike chissà quando mi capiterà di rivederla (mi innamorai di lei ne “La versione di Barney”, ma dopo “Gone Girl” l’ho esclusa dalla lista delle donne della mia vita, dovrà farsene una ragione).
Finalmente alle 19.30 riesco a vedere un altro film. Si tratta dell’argentino “Nadie nos mira”, di Julia Solomonoff. Sono rimasto sconcertato: hanno cambiato l’interno del Teatro Studio (a voi che leggete tutto ciò interesserà poco, ma vi assicuro che ai tempi dell’università questa era la nostra sala preferita, soprattutto perché in ultima fila c’era la ringhiera poggia testa). Sala a parte, il film si avvale della classica malinconia del cinema argentino, cosa che personalmente mi piace tantissimo. Un attore, celebre in patria per una telenovela di successo, si trasferisce a New York per cercare di sfondare nel cinema che conta. Qui la verità è però amara: Nico è costretto a sbarcare il lunario lavorando come cameriere e come baby sitter, cercando di nascondere il suo fallimento ad amici e parenti, ma soprattutto deve cercare la propria pace interiore (aah, l’amour). Insomma, non sarà un grandissimo film, ma ha quel non so che di indipendente mischiato a quel velo di tristezza tutto argentino che a me muove sempre qualcosa. Cresce lentamente e alla fine capisci che ne è valsa la pena restare all’Auditorium fino alle 9.
Lo so, oggi ho scritto un papiro lunghissimo e non so quanti di voi abbiano avuto il coraggio di arrivare fino in fondo. Cercate di capire, è il primo giorno. Domani c’è Xavier Dolan ma soprattutto c’è lo sciopero dei mezzi e sarò costretto ad uscire di casa prima dell’apocalisse. Dimenticavo: potrebbe anche piovere. A domani.
Photo credits: Alessio Trerotoli