Il regista svedese di origine egiziana Tarik Saleh prende spunto da un omicidio realmente avvenuto nel 2008, in cui era implicato un pezzo grosso del Parlamento locale, portandolo nel 2011, nella calda atmosfera che in seguito sfocerà nell’ormai storica “primavera araba”, come l’hanno ribattezzata i media. Un thriller che sa di polvere e tabacco, esotico nella sua bellissima ambientazione egiziana, puntuale nel raccontare una società in declino, un’epoca sull’orlo del precipizio, ad un passo da un cambiamento storico.
Poche settimane prima del crollo di Mubarak, il capitano della polizia Noredin (una sorta di Giorgio Chiellini in versione araba) indaga sull’omicidio di una celebre cantante avvenuto in un albergo di lusso. Noredin dovrà aggrapparsi al suo istinto e ad un ritrovato senso di giustizia, in un labirinto di corruzione, nomi altisonanti, fotografie compromettenti, dove tra le altre cose dovrà districarsi tra una bellissima cantante piena di segreti e una testimone indifesa.
Immerso in una splendida fotografia e diretto con uno straordinario gusto per l’immagine, “Omicidio al Cairo” è un ottimo thriller dai risvolti noir, che immerge la più classica delle trame poliziesche in un’atmosfera densa di agitazione, raccontata perfettamente, senza essere mai invadente, tuttavia presente dietro ogni angolo, su ogni muro: è il vento del cambiamento, che da lì a poco avrebbe modificato per sempre la società egiziana. Il film tuttavia è stato girato a Casablanca, in Marocco, a causa del blocco alle riprese imposto dai Servizi di Stato egiziani: quello di Saleh è dunque un film scomodo, che lancia un’accusa ben precisa nei confronti delle istituzioni di un Paese con cui anche noi, pensando al caso di Giulio Regeni, siamo costretti (ahinoi) a fare i conti.