Recensione “L’Isola dei Cani” (“Isle of Dogs”, 2018)

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Sono bastati circa 48 secondi a farmi pensare per la prima volta “questo film è stupendo”. In effetti solo Wes Anderson potrebbe riuscire a mettere insieme un cast composto da Bryan Cranston, Bill Murray, Edward Norton, Jeff Goldblum, F. Murray Abraham, Greta Gerwig, Scarlett Johansson, Frances McDormand, Harvey Keitel, Tilda Swinton e moltissimi altri con l’intento di doppiare un film sui cani. Già, perché è proprio qui che si compie il miracolo del regista texano: confermarsi ancora una volta genio delle storie strampalate, dove i buoni sentimenti sono il motore dell’azione, dove l’infanzia è sempre un’avventura e soprattutto dove l’unione fa la forza, che sia in una famiglia dalle tute rosse, nello staff di un oceanografo, in un gruppo di boy scout oppure, come in questo caso, in una gang di cani abbandonati.

In Giappone, nel 2037, a causa di una curiosa influenza canina tutti i cani del Paese vengono messi in quarantena su un’isola piena di rifiuti. Cinque di loro, stufi di questa condizione e del loro esilio forzato, decidono di aiutare un ragazzino, Atari Kobayashi, appena giunto sull’isola con l’intento di ritrovare il suo cane. Le autorità giapponesi, guidate dal malvagio sindaco Kobayashi, zio di Atari, faranno di tutto per recuperare il ragazzino e tagliare ulteriormente i ponti con gli animali presenti sull’isola.

Wes Anderson aveva già affrontato l’animazione in stop-motion in un altro splendido film con protagonisti gli animali (“Fantastic Mr. Fox”, del 2009), stavolta però la componente umana ha un ruolo molto più decisivo, tra studenti ribelli e scienziati in cerca di soluzioni. Ad ogni modo, gli unici a non parlare giapponese, quindi gli unici ad essere comprensibili (per noi), sono proprio i cani: democratici (mettono sempre al voto ogni decisione), emozionati, pieni di risorse, ironici, malinconici, nostalgici, orgogliosi, caparbi, teneri. In una parola, umani. “L’isola dei cani” è davvero una meraviglia.

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