Recensione “Minari” (2020)

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Minari è una resistentissima erba coreana capace di crescere dappertutto, ovunque venga piantata. Una metafora piuttosto interessante se rapportata alla famiglia protagonista della storia, di origine per l’appunto coreana, che ha appena lasciato la California per inseguire il sogno lavorativo del capofamiglia, Jacob, deciso a costruire una fattoria nel mezzo dell’Arkansas. Un’altra metafora è quella delle radici che Jacob è ben deciso a piantare sul lotto di terreno appena acquisito, le stesse radici che non è ancora riuscito a mettere negli Stati Uniti nei dieci anni in cui lui e sua moglie Monica vi si sono trasferiti (e dove hanno messo al mondo due bambini piuttosto svegli).

Quello che a prima vista può sembrare una storia di immigrazione, è invece soprattutto una variazione sul tema del sogno americano, in cui i protagonisti sembrano avere la necessità di credere fermamente in qualcosa prima di veder crollare a pezzi la fiducia che hanno tra di loro. Il mito della frontiera stavolta si rovescia, non riguarda più la conquista del west tanto agognato un paio di secoli or sono: l’ovest è un luogo da abbandonare per cercare fortuna nel profondo sud, inedita Terra Promessa dove o ci si realizza o si fallisce e si torna indietro, senza alcuna mezza misura. Ad alimentare la tensione tra moglie e marito è l’arrivo dalla Corea dell’anziana madre di Monica, dai modi talmente bizzarri da non sembrare una “vera” nonna agli occhi del piccolo David, che la accusa di non saper neanche cucinare dei biscotti.

David, meraviglioso, è il vero protagonista dell’intera vicenda: un bambino affetto da una malattia al cuore, bilingue, nato in America ma coreano nei tratti e nel sangue, diviso tra la passione tutta stelle e strisce per il wrestling e le cure di una nonna birichina che secondo il bimbo “odora di coreano”, che gli insegna i segreti dell’erba minari e delle carte del suo Paese. In questo contesto, mentre il padre suda sette camicie insieme al vicino un po’ svitato (Will Patton), ci si interroga sul ruolo della famiglia, su quello che si sta cercando di costruire: Jacob cerca di realizzare se stesso o di creare qualcosa che possa esser mandato avanti dalle future generazioni? La domanda successiva sarà: a che prezzo? Il film di Lee Isaac Chung, premiato col Gran Premio della giuria al Sundance, prende il meglio delle due identità che mette in scena: la poesia emozionante e tenera del cinema asiatico e la capacità, tutta statunitense, di mostrare un dramma famigliare mascherandolo come un viaggio alla ricerca del successo. Così come l’erba del titolo, anche questa famiglia riuscirà a resistere alle intemperie e ad imporsi rigogliosa ovunque venga piantata?

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