
Prima settimana pugliese dell’anno e, puntuale come la nuvoletta di Fantozzi, è arrivato a farmi compagnia un ospite indesiderato: il covid. Mentre fuori dalla porta il mare cristallino e il pollo promesso dagli amici mi fa ciao ciao, restarmene a casa ha però significato una quantità di film impressionante: ben nove (uno per ogni giorno di positività, praticamente). Tra film francesi, italiani, norvegesi, britannici e statunitensi, non mi sono fatto mancare davvero nulla. In attesa di tempi migliori, in cui spero di vedere meno film e di fare un po’ più di vita, andiamo a scoprire tutte le novità di questo capitolo.
Marie Antoinette (2006): Sofia Coppola ha imparato bene la lezione di papà Francis, su questo non ci sono dubbi, perché è una cineasta completa, capace, piena di buone idee. Non avevo mai visto questo suo film, celebre per aver osato trasporre la storia di Maria Antonietta di Francia in versione pop (scenografie e costumi coloratissimi, oltre a canzoni moderne come “What Ever Happened” degli Strokes, “Ceremony” dei New Order o “Plainsong” dei Cure). Devo dire che il film mi è piaciuto, ha un’estetica convincente e resta fedele a se stesso fino all’ultimo, nel bene e nel male. Inoltre il cast è davvero fenomenale: oltre alla bravissima Kirsten Dunst, troviamo Jason Schwarzman, Rip Torn, Rose Byrne, Marianne Faithfull, Jamie Dornan, Tom Hardy, Mathieu Almaric, Steve Coogan e addirittura Asia Argento. Una curiosità: quando Sofia Coppola ha chiesto alla band The Radio Dept di poter usare tre loro canzoni all’interno del film, il gruppo ha detto che gliele avrebbe concesse a patto che la regista rivelasse loro la frase sussurrata da Bill Murray a Scarlett Johansson nell’ultima scena di “Lost in Translation”. Bello, lo trovate su Netflix.
“Un maschio sarebbe stato re di Francia, ma tu, Maria Teresa, sarai mia”
I Tre Volti della Paura (1963): Film a episodi firmato da Mario Bava, basato su tre racconti di Maupassant, Checov e Tolstoj. Una voce al telefono terrorizza una donna, minacciandola di morte; un vampiro tormenta una famiglia isolata nel bel mezzo delle montagne; una donna, nel rivestire il cadavere di una medium, le ruba un anello prezioso e viene tormentata dal suo spirito. Tre storie che non spiccano certamente per originalità, ma che il talento di Bava rende assolutamente godibili, soprattutto a livello visivo (la sceneggiatura è quasi un pretesto per permettere al regista di stupire con le luci e i movimenti di macchina). Il film ebbe un impatto incredibile sul pubblico anglofono (anche grazie alla presenza di Boris Karloff, che ne favorì la distribuzione all’estero): basti pensare che il titolo con cui è uscito nei cinema inglesi è “Black Sabbath”, che colpì a tal punto un giovane Ozzy Osborne da farlo diventare il nome della sua band. Inoltre anche Quentin Tarantino ha più volte affermato di essersi ispirato alla struttura del film di Bava per la realizzazione di “Pulp Fiction”. Piacevole sorpresa, il film è su Prime Video.
“Con i fantasmi c’è poco da scherzare, perché si vendicano”
Thelma (2017): Dopo aver concluso e apprezzato la cosiddetta “Trilogia di Oslo”, sto approfondendo la conoscenza del cinema di Joachim Trier. Il regista norvegese questa volta cambia più o meno registro: non abbandona il tema della formazione, del passaggio alla vita adulta, che in qualche modo si era visto o intravisto negli altri film, ma stavolta però ci mette dentro qualcosa di sovrannaturale: una ragazza con poteri psichici incredibili. Il suo percorso e l’accettazione di ciò che è, è coerente con gli altri protagonisti del cinema di Trier, che riescono sempre ad aggiungere qualcosa ad un tema comunque trattato in diverse occasioni, sia dal cinema europeo che da quello statunitense. Sorprendente (è su Mubi).
The Mothman Prophecies (2002): Vent’anni fa vidi questo film nel mitologico cinema Galaxy di via Pietro Maffi, che ormai da anni è purtroppo un locale con le saracinesche abbassate, ma che un tempo era il fulcro della vita notturna del quartiere Primavalle, oltre che uno dei maggiori responsabili del mio amore per la sala buia. Mark Pellington, regista che si è fatto un nome nel circuito dei videoclip grunge e rock (“Jeremy” dei Pearl Jam, “One” degli U2 e “Best of You” dei Foo Fighters sono forse i suoi fiori all’occhiello), dirige Richard Gere e Laura Linney in un thriller sovrannaturale ispirato ad una storia vera, quella del misterioso crollo del Silver Bridge nella cittadina di Point Pleasant, in West Virginia. Richard Gere nel film perde la moglie in un incidente stradale, prima del botto però la donna sembra aver visto un misterioso essere (che poi farà in tempo a disegnare prima di morire). Tempo dopo il buon Richard si ritrova senza volerlo in una cittadina dove sembrano accadere cose strane: c’è soprattutto Will Patton, matto scocciato, che sente una voce profetizzare tragedie imminenti. Richard Gere capisce che c’è un nesso tra i misteri di questa città e la morte della moglie e, da buon giornalista, comincia a indagare, a costo di passare per pazzo. L’idea iniziale è buona e il film nella prima parte riesce a reggere, almeno finché il mistero non comincia a diradarsi in maniera troppo marcata e a tramutarsi in farsa. Buono per una serata senza il minimo impegno, Richard Gere ha una sola espressione basita per quasi due ore e, se visto in chiave (involontariamente) ironica, potrebbe pure divertirvi. Lo trovate su Prime Video.
Rosso Sangue (1986): Era da molto tempo che cercavo di trovare questo film di Leos Carax, sicuramente da quando ho visto per la prima volta “Frances Ha” di Baumbach e ho saputo che la celebre scena con Greta Gerwig che corre e balla per strada sulle note di “Modern Love” di Bowie in realtà era una citazione di questo film francese. Un uomo muore in metropolitana e la sua creditrice va a riscuotere dai suoi due soci l’ingente debito che il morto aveva con lei. I due uomini non hanno molto tempo e decidono di coinvolgere in un colpo milionario anche il figlio dell’ex socio, un prestigiatore diviso tra l’amore di una giovanissima Julie Delpy e l’amore non corrisposto per un’altrettanto giovane Juliette Binoche (incantevoli entrambe). Tra triangoli amorosi e triangoli criminali, il film scorre che è una bellezza, con alcune trovate registiche degne della fama di Leos Carax (che ha scelto questo nome d’arte anagrammando il suo vero nome, Alex, con la parola Oscar). Il film è davvero notevole, lo avrei guardato per ore, con i suoi colori desaturati (tranne il rosso, ovviamente), trovate romantiche e mirabolanti movimenti di macchina. La scena, poi citata quasi trent’anni dopo da “Frances Ha”, è una delle tante perle di un film stupendo. Quando si tratta di mischiare amore e pallottole, i francesi sono davvero i numeri uno.
(500) Giorni Insieme (2009): Ai tempi in cui uscì in sala, questo film di Marc Webb divenne ben presto uno dei miei manifesti della vita. A quei tempi ero un single incallito, appassionato della musica degli Smiths e innamorato delle commedie indie di questa fattura, con attori in palla, trovate registiche originali (come la struttura narrativa, che salta da un giorno all’altro della storia tra i due protagonisti), ghiotte citazioni cinematografiche (“Il Laureato” su tutte) e una protagonista di cui mi sarei potuto innamorare facilmente (Zooey Deschanel ancora nel cuore). Tutto molto facile, acchittato esattamente per conquistare un neolaureato DAMS desideroso di avventure e disperazioni a portata di mano nelle quali crogiolarsi, magari con qualche bella canzone (degli Smiths!). Insomma, questa lunga premessa serviva a dire che il me di dodici anni fa rientrava perfettamente nel target di chi ha prodotto questo film, spettatore ideale di una storia ben scritta, ben diretta, ben realizzata. Rivederlo oggi mi fa un po’ sorridere della mia ingenuità, ma è sempre una bella sensazione. Ottimo film.
“Son rosse le rose, son viola le viole, vaffanculo troia!”
Bob il Giocatore (1956): Quando guardi un film di Jean-Pierre Melville in realtà stai guardando una lezione di cinema. Bob è il suo quarto lungometraggio, ma il primo in cui si cimenta con il genere noir, immergendo le vicende in una Pigalle piena di mezze cartucce e criminalucoli da quattro soldi. Bob, come da titolo, è un giocatore d’azzardo, un ludopatico che si è installato addirittura una slot machine dentro casa pur di non perdere la mano. Non è una cattiva persona, anzi, cerca costantemente di tenere fuori dai guai una ragazza in cerca di un rapido avvenire e un ragazzotto fin troppo facile da coinvolgere in loschi affari. La vita a Montmartre scorre tranquilla fin quando Bob non resta al verde e, disperato, decide di metter su un colpo milionario al casinò di Deauville. Il finale, che non vi rivelerò, è talmente originale da spiazzare completamente chi si aspettava qualcosa di prettamente classico, o perlomeno legato al genere di riferimento. Che poi a Bob per fare soldi sarebbe bastato aspettare qualche decennio e trasformare quel suo clamoroso appartamento con vista sul Sacro Cuore in un bed & breakfast.
Following (1998): Il primo lungometraggio di Christopher Nolan è la dimostrazione che per fare ottimo cinema serve una buona idea, tanta determinazione e poco altro. La storia è piuttosto semplice: un aspirante scrittore segue le persone per strada per conoscere qualcosa di loro e prendere spunto per il suo romanzo. Un giorno, uno dei seguiti, si palesa nei confronti del ragazzo e si presenta come Cobb, un elegantissimo topo d’appartamenti. Cobb infatti entra nelle case delle altre persone e cerca di carpire qualcosa sulla loro vita, bere il loro vino e rubacchiare qualche cd. Il suo fine in realtà è ben diverso. Girato in bianco e nero con una pellicola che Nolan si è pagato da solo, con attori non professionisti (che hanno lavorato gratis) e usando i loro veri appartamenti come set del film, Nolan realizza un inno al cinema indipendente, costruendo questo suo esordio cinematografico con un montaggio che ricorda molto quello che userà poi come scheletro del suo film successivo, il capolavoro “Memento”. Film che nella sua semplicità è di una bellezza folgorante, capace di mettere in mostra tutto il genio creativo di un autore che nel decennio successivo avrebbe sfornato film bellissimi, almeno finché la creatività e l’ispirazione lo avrebbero assistito (ma questo è un altro discorso).
L’asso nella manica (1951): Girato subito dopo uno dei suoi più grandi capolavori (“Viale del Tramonto”) e poco prima dell’ottimo “Stalag 17”, Billy Wilder ad inizio degli anni 50 racconta la storia di un cinico e ambizioso giornalista, Kirk Douglas, costretto a ripartire da un quotidiano di provincia (la stessa Albuquerque resa immortale una sessantina d’anni dopo da una certa serie tv su un professore che cucina metanfetamina…) dopo esser stato allontanato da testate ben più prestigiose a causa della sua condotta e del suo caratteraccio. Il protagonista spera di imbattersi in uno scoop talmente grande da poterlo riportare dietro le scrivanie che contano: l’occasione giusta arriva quando scopre che il gestore di una stazione di servizio di un paesino è rimasto incastrato dentro una grotta in seguito ad una frana. Fiutata la notizia, Kirk Douglas organizza un teatrino per renderla LA notizia dell’anno. Il luogo infatti viene letteralmente invaso da curiosi e turisti, che trasformano il sito in un grottesco luna park, mentre i soccorsi continuano a procedere lenti, su macchinazione del giornalista, per far sì che si possa sfruttarne pienamente la notizia. Dramma ben congegnato, che rivela il lato oscuro della cronaca, delineando uno spaccato amaro della società statunitense del dopoguerra, lascia già intuire ciò che il giornalismo sarebbe diventato nei decenni successivi (ad esempio ora, in Italia come in tanti altri posti). Quello che dovrebbe essere il mestiere più bello, in cui un professionista è servo della notizia e mai il contrario, è oggi, così come il film racconta, un mondo dove è facile imbattersi purtroppo in scribacchini che piegano la verità al servizio del loro ego, inventando, saccheggiando la realtà, facendosi beffe di chi legge. Il film lascia un po’ di amaro ed è del 1951, pensate lo schifo che si potrebbe raccontare invece oggi.
“Ho mentito a uomini con la cintura e a uomini con le bretelle, ma non sarò mai così stupido da mentire a un uomo che porta cintura e bretelle”
SERIE TV: In attesa di riprendere “Better Call Saul” e “I Soprano”, ho finito, come più o meno tutti, la quarta stagione di Stranger Things. Non ho intenzione di rivelare nulla, quindi non abbiate timore degli spoiler (nel caso assurdo in cui non l’abbiate ancora vista), dirò soltanto che non mi sto strappando i capelli come ho letto fare a molti qua e là sui social. Innanzitutto quando in una serie si comincia di più a pensare al “Toto Morte” che alla storia significa che c’è qualcosa che non sta funzionando a dovere (tipo nell’ultima stagione di “Game of Thrones”), inoltre c’è da dire che, se le vicende che si svolgono a Hawkins hanno un senso e una coerenza, tutte le storie di contorno (tra il laboratorio, quell’assurdo furgoncino per la pizza e la inutile vicenda in Russia) appesantiscono il racconto e spezzano il ritmo di quella che è sicuramente la trama più appassionante (il gruppo di amici che cerca di uccidere il villain di turno, Vecna). Al netto di un paio di ottime trovate (come sempre l’uso azzeccato della musica, in questo caso di Kate Bush e dei Metallica, è uno dei marchi di fabbrica della serie), questa quarta stagione è insoddisfacente tanto quanto le due che l’hanno preceduta. “Stranger Things”, al di là di qualche bella puntata qua e là, resta quel miracolo televisivo che è stato nella sua prima stagione, qualcosa che mancava e di cui avevamo assolutamente bisogno, che ci ha fatto sentire uniti anche se eravamo lontani, che ci ha fatto sentire amici anche se non ci conoscevamo (cit). Il resto è nato sulla scia di quel clamoroso successo, un miracolo appunto, qualcosa di irripetibile, per cui si è cercato di creare un illogico seguito che non poteva avere né la freschezza né la passione del suo primo, indimenticabile, capitolo. E potete dire quello che volete, ma niente sarà come Mike, Dustin e Lucas bambini che cercano di salvare il loro amico Will.
