
L’ultimo film di Luca Guadagnino si apre su una serie di acquerelli raffiguranti paesaggi della provincia statunitense: è la promessa del road movie al quale assisteremo nelle seguenti due ore. L’incipit è talmente bello da far sembrare il resto del film quasi deludente, ma non è davvero così: siamo nel liceo di una cittadina della Virginia e facciamo la conoscenza di Maren. Una sua compagna di scuola la invita ad un pigiama party e Maren sa già che il padre non le permetterà di esserci. Tra poco capiremo perché. Tale è la voglia della ragazza di fare le tipiche cose che si fanno a quell’età, da uscire di casa di nascosto per recarsi alla festa clandestinamente. Sembra la tipica situazione da film di Greta Gerwig: ragazzate, amiche, confidenze, la bellezza di stare insieme e stringere legami. Poi, improvvisamente, Maren stacca a morsi il dito della sua amica: in questo momento capiamo che non siamo in un film di Greta Gerwig e la successiva reazione del padre di Maren, agitato ma non sorpreso, ci fa capire che questo è esattamente ciò che ci aspetta. Ovvero un film su una ragazza cannibale.
Come dicevo, la premessa è talmente coinvolgente e interessante da catapultarti immediatamente nella storia. Maren, fresca diciottenne, dopo esser stata abbandonata da un padre rassegnato e incapace di crescerla (di cui restano soltanto le parole incise su una cassetta), si ritrova con un certificato di nascita in mano e pochi indizi su dove poter rintracciare sua madre, forse l’unica che può dirle chi è. La ragazza si lancia dunque in un viaggio, dapprima solitario, poi in compagnia del solito Timothée Chalamet, attraverso il midwest statunitense, la tipica provincia degli indie movie, tra Ohio, Kentucky, Missouri, fino al Minnesota e al Nebraska. Il punto è che non ci si presenta ad una cena con un’eccellente bottiglia di vino per farla poi soltanto annusare, ma è un po’ quello che fa Guadagnino con questo film. A fronte di un’estetica da urlo (in tutti i sensi), con sangue che cola su menti, colli e maglioni che sembrano usciti da film per ragazzi degli anni 80 e pianure accarezzate da luce calda, il film cede il passo nel momento in cui decide di voler spingere sul fronte delle emozioni. Ci prova, ci insiste, ma non colpisce al cuore (se non “fisicamente”, vedendo i personaggi cibarsi di altri esseri umani), ed è nel vedere le solite anime solitarie che piangono, si trovano e si amano che capisci che la parte migliore del film probabilmente si è un po’ persa per strada (come ad esempio i vari “eaters” incontrati lungo il cammino, dall’eccellente e viscido Mark Rylance all’altrettanto inquietante Michael Stuhlbarg). Il dilemma morale di questi cosiddetti “mostri” è sicuramente una delle chiavi più interessanti del racconto (un po’ come lo era nel meraviglioso “Thirst” di Park Chan-wook) e forse è una voce che meritava più respiro rispetto ai cliché della fuga d’amore.
Al di là del gusto personale per gli amori tragici, il film è senza dubbio più che interessante, esteticamente ineccepibile e interpretato benissimo (oltre ad essere accompagnato da una colonna sonora splendida, composta da Duran Duran, Kiss, New Order e Joy Division, tra gli altri). L’unico peccato è che quella bottiglia di vino sarebbe stato bello non solo annusarla, ma anche berla fino ad ubriacarcisi.
