Recensione “Le Otto Montagne” (2022)


Secondo una leggenda nepalese, il mondo è una ruota con otto raggi. Al centro del mondo si trova un monte altissimo, il Sumeru, intorno al quale ci sono otto mari e otto montagne (che corrispondono ai raggi della ruota). Il saggio si domanda: a scoprire il senso della vita è colui che ha fatto il giro delle otto montagne o colui che ha scalato il monte Sumeru? La risposta a questa domanda è la chiave del nuovo film di Felix Van Groeningen (noto per l’amatissimo “Alabama Monroe”) e Charlotte Vandermeersch (che invece di quel film era stata la co-sceneggiatrice).

Pietro e Bruno si conoscono sin da quando sono bambini. Pietro è un ragazzo di città e viene a trascorrere ogni estate in un piccolo paesino di montagna insieme ai suoi genitori: è in questo piccolo agglomerato di case che incontra Bruno, che invece lì ci vive e conosce ogni angolo del territorio. Per due amici così diversi è naturale, una volta cresciuti, allontanarsi senza pensarci davvero, senza neanche volerlo: è così che vanno le cose, soprattutto quando sei giovane e non puoi ancora prendere decisioni in autonomia. Dopo quindici anni però i due vecchi amici si ritrovano, sempre là, in montagna, e stavolta tenteranno di non perdersi più, nonostante scelte di vita completamente differenti. Ed è qui che torna la domanda di cui sopra: chi di loro due ha colto il senso della propria esistenza?

Borghi e Marinelli sono una coppia collaudata, affiatatissima ed è sulle loro spalle che si regge il film dei due fiamminghi, tratto da un romanzo di Paolo Cognetti. La montagna poi fa da cornice senza mai apparire fasulla o da cartolina, ma raccontata tramite sentieri, picchi, rocce franate, laghi nascosti e distese innevate. La natura qui non è qualcosa di astratto (come dice Bruno, rivolgendosi agli amici di città che usano il termine “natura” per definire la bellezza del luogo), è invece qualcosa che ha un nome, che si può toccare, che può darti tanto, tutto, ma anche toglierti quello che concede. Anche in questo caso dunque, si tratta di un ciclo, di un percorso circolare, di una ruota. La ruota nepalese è intesa dunque come una metafora sul senso della vita e delle esperienze che ci formano, ergo come metafora della conoscenza, a livello fisico, metafisico e spirituale: se la montagna più difficile da scalare è anche quella dove è più complicato restare, dove trovare dunque il senso della vita? Cosa è più importante: il traguardo raggiunto o il percorso fatto per arrivarci? Nonostante il film ci offra diversi punti di vista e una parvenza di risposta (anche se pure questa può decisamente essere diversa in base a chi lo guarda), in realtà non esiste un responso valido per ogni individuo: il proprio posto del mondo può essere in un rudere di montagna, alle pendici dell’Himalaya, o nel posto esatto in cui ti trovi in questo momento, mentre leggi queste righe. Siamo gli unici che possiamo saperlo e, a volte, quelli che per capirlo ci impiegheranno una vita intera.

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