
Ultimo capitolo del 2022. Sembrava ieri che, poco dopo l’inizio dell’anno, vi parlavo di Wong Kar-wai e della mia sempre più enorme passione per Mubi. Come passa il tempo quando ci si diverte eh? In questo 2022 per ora ho guardato 163 film, contro i 146 visti nel 2021 e gli irraggiungibili 211 del 2020 (ma con il lockdown e senza partite di calcio era praticamente ovvio vedere così tanti film). Entro la fine dell’anno dovrei toccare i 170 film visti, un’ottima media in questa ottima annata di cinema. A proposito, tra qualche giorno arriverà anche la ormai tradizionale Top 20 di fine anno, con i miei film preferiti distribuiti in Italia durante l’anno solare e vi prometto come sempre un sacco di bei titoli. Abbiate pazienza, ci vorrà ancora qualche giorno, ché devo recuperare ancora parecchie cose, nel frattempo godetevi questi giorni di vacanza nel miglior modo possibile e, se potete, guardatevi qualche bel film.
Forever Young (2022): Il nuovo film di Valeria Bruni Tedeschi, dall’immancabile respiro autobiografico (che ultimamente, tra Steven Spielberg, James Gray, Kenneth Branagh e quant’altri, va davvero un casino) pulsa con un’enorme energia, ispirazione e soprattutto un amore incondizionato nei confronti del teatro e degli attori. La storia infatti torna ai tempi in cui la regista frequentava la celebre accademia teatrale “Les Amandiers” (che dà anche il titolo originale al film), tra passione, promiscuità, voglia di realizzarsi e di stringere legami. C’è tanto amore in questo film, c’è un bisogno speciale di raccontarsi e se da un lato può sembrare un punto debole, dall’altro prende totalmente forza dai ricordi della regista. Si perde un po’ in una svolta finale un po’ troppo telefonata, ma nel complesso è proprio un bel film.
El Planeta (2021): Nonostante rientri nella categoria di film che solitamente amo molto, si sforza troppo di essere divertente e si compiace nel voler sembrare geniale, ottenendo invece il risultato opposto. Quando guardo un film per me è importante credere nei personaggi che sto guardando e semplicemente, in questa coppia madre-figlia (nonostante siano madre e figlia anche nella realtà), non ho creduto neanche per un istante. Il discorso sulla crisi economica e su questi due personaggi che cercano di sopravvivere di sotterfugi è anche interessante, ma semplicemente non sono riusciti a convincermi. Peccato, perché c’era del potenziale (a partire dalla insolita location, la città di Gijon, nelle Asturie). Se volete dargli una chance, lo trovate su Mubi.
Avatar 2 (2022): Ammetto di essere andato a vederlo più per provare l’esperienza della sala iSense del cinema Maximo che per reale interesse e da questo punto di vista devo dire che ne è valsa la pena: è uno di quei film che han senso di esistere solo al cinema e questa vittoria della sala nei confronti dello streaming è già di per sé un successo. Al di là di questo, il film si divide in circa due ore di National Geographic prima di passare ad un’ora di videogioco. In totale dura tre ore e dodici minuti: quando finisce lo stupore, comincia a diventare un sequestro di persona (e dopo 192 minuti di 3D fanno pure un po’ male gli occhi, almeno per quanto mi riguarda). Vorrei fare qualche accenno di trama ma vi basterà sapere che è pressoché identico al primo, solo che qui c’è l’acqua e qualche cliché sulla famiglia. Guardatelo nel miglior cinema che potete raggiungere, oppure non guardatelo proprio: non ci sono vie di mezzo.
Un bel mattino (2022): Mia Hansen-Løve ha un talento tutto suo nel saper rendere totalmente sincere e mai pretenziose o ricattatorie storie di qualunque genere, anche le più normali che possano esistere. Qui c’è Lea Seydoux che è madre ma anche vedova, alle prese con un padre non più autonomo da dover sistemare in qualche struttura e una nuova relazione piena di passione, ma anche complicata (con un uomo sposato). La vita quotidiana raccontata dalla regista parigina è talmente reale che ti viene voglia di abbracciare i personaggi e passare un po’ di tempo con loro (niente battute sul fatto che la protagonista sia Lea Seydoux, avete capito che intendo). Non succede granché, come nella vita, ma è tutto così intenso e grondante malinconia da sembrarti familiare. Quanto cuore in questo film.
Playtime (1967): Avevo sentito parlare molto di questo film di Jacques Tati, ma non mi era mai capitato di vederlo prima d’ora. Adesso è su Prime Video ed è un colpo di fulmine pazzesco: monsieur Hulot sta a Tati come Charlot sta a Chaplin, qui il nostro cerca di barcamenarsi, da tipico personaggio da slapstick comedy, in una Parigi tecnologica, moderna, asettica, proiettata al futuro. Le immagini e le scenografie sono stupefacenti, sembrerebbe più un film del 2000 che uno del 1967, eppure Tati riesce a mettere insieme delle inquadrature sofisticate, composte al millimetro, dalle quali non puoi staccarti neanche per un istante: in tutto ciò il suo Monsieur Hulot spezza ogni rigidità, ogni geometria con la sua elasticità e la sua goffa presenza, a tratti distruttiva. Il film è composto da diverse macro-sequenze all’interno dello stesso contesto, in una Parigi irriconoscibile se non per un paio di riflessi sulle porte a vetri dove compare prima la Tour Eiffel e poi il Sacre Coeur di Montmartre. Tati anticipa di oltre 40 anni la fotografia di strada artistica che prenderà piede nel secolo successivo: ogni frame di questo film sembra uno scatto di street photography che potrebbe esser stato realizzato nel 2015 o 2020, credetemi. Inoltre ogni inquadratura (soprattutto nella sequenza del ristorante) è talmente piena di cose da vedere che talvolta non riesci pienamente a stare dietro a ciò che accade. Sorprendente.
Le Otto Montagne (2022): Secondo una leggenda nepalese, al centro del mondo si trova un monte altissimo, il Sumeru, intorno al quale ci sono otto mari e otto montagne. A scoprire il senso della vita è colui che ha fatto il giro delle montagne o colui che ha scalato il Sumeru? La risposta a questa domanda è la chiave del nuovo film di Felix Van Groeningen (noto per l’amatissimo “Alabama Monroe”) e Charlotte Vandermeersch. Che sia un bel film è fuor di dubbio: una bella storia, due protagonisti molto diversi tra loro ma al tempo stesso così simili, un’ambientazione suggestiva, tra rocce e montagne e ogni cosa che sembra al posto giusto. Eppure le mie emozioni davanti a tutto questo hanno avuto il freno a mano tirato, mi domando il motivo. Al di là di questo, è comunque un bel film.
La ragazza del punk innamorato (2017): Mi piacerebbe poter sorvolare sul pessimo titolo italiano, ma come si fa? “How to talk to girls at parties” è sicuramente un titolo più bello, più azzeccato, meno frivolo e scemo di quello scelto dalla distribuzione italiana. Il film di John Cameron Mitchell, celebre per “Hedwig” e “Shortbus”, sembra l’episodio di una serie tv teen di Netflix (e lo dico con accezione totalmente negativa): tre amici, appassionati di musica punk, si imbattono in un gruppo di alieni sceso sulla Terra per registrare esperienze. Uno di loro si innamora dell’extraterrestre Elle Fanning, ispirandole una ribellione in pieno stile punk. Per carità, i personaggi sono simpatici, l’ambientazione è carina e qualche idea buona non manca, ma è tutto così innocuo come un pezzo di formaggio. Da segnalare una Nicole Kidman che più cringe non si può. Se volete vedere qualcosa di leggero e senza la minima pretesa è quel che fa per voi (e lo trovate su Mubi).
Gagarine (2020): Anche questo, film d’esordio di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, è su Mubi ed è una favola urbana ambientata in una banlieue parigina ai tempi del complesso popolare Gagarine. Qui viveva una comunità multietnica costretta a cambiare casa dopo l’avviso di demolizione dei palazzi dove si svolgono le vicende dei ragazzini protagonisti, tra cui un giovane appassionato di astronomia e una ragazza rom piena di risorse. Il film è molto carino, il contesto vero e i riferimenti storici del complesso residenziale aggiungono sicuramente carne e contenuti ad una favola che senza di essi sarebbe piuttosto sciapa. Eppure a cosa si vuole arrivare? Il discorso sul senso di appartenenza del luogo in cui cresci è sicuramente centrato e anche la sottile denuncia sociale, ma le azioni del protagonista sono in realtà fuori da ogni logica ed è un po’ difficile assecondarle. Resta comunque un film piacevolissimo, senz’altro riuscito, ma onestamente da un’opera selezionata per il concorso a Cannes mi aspetto sempre qualche cosa in più.
Love Actually (2003): Visto che lo vedo ogni anno, farò semplicemente copia-incolla con quanto scritto l’anno scorso. Non sarebbe dicembre se non mi vedessi il capolavoro di Richard Curtis, che guardo più o meno ininterrottamente ogni anno, di questi tempi, da almeno quindici anni. Si tratta del mio guilty pleasure per eccellenza (o comfort movie, fate voi), credo che potrei rivederlo in cento e cento occasioni, ma ogni santa volta in cui vedrò Andrew Lincoln dire “enough, enough now” dopo il bacio di Keira Knightley, io mi squaglierò sul divano, è automatico. La prima volta che ho visto questo film è stata nell’estate del 2004, ricordo che subito dopo i titoli di coda trovai finalmente il coraggio di telefonare ad una ragazza che mi piaceva un sacco: non mi rispose.
SERIE TV: Come sapete non sono quel che si dice un amante delle serie tv, penso che ormai sia chiaro. Nessuna serie tv sarà mai bella quanto il più bello dei film visto magari al cinema, quindi per il piccolo schermo è una battaglia persa in partenza. Premesso ciò, giusto per allungare un po’ il brodo, posso annunciare di essere giunto finalmente all’ultima stagione de I Soprano, che conto di cominciare prima di Capodanno. La quinta stagione è stata davvero esaltante, con l’arrivo di Frank Vincent (ricorderete tutti l’attore che in “Quei bravi ragazzi” chiede a Joe Pesci di lustragli le scarpe!) e soprattutto del grande Steve Buscemi. Sui Soprano c’è tanto da dire, sicuramente è una serie grandiosa, gli episodi autoconclusivi sono pressoché perfetti, ma se potessi chiedere qualcosa a David Chase, il creatore della serie, gli direi di rendere la trama orizzontale più marcata, perché è vero che la storia si evolve meravigliosamente di stagione in stagione (e contestualizzandola nell’epoca in cui è uscita è stata sicuramente una delle prime a lavorare così bene sulla connessione tra gli episodi), ma spesso è capitato che le vicende si concludessero senza cliffhanger o comunque grossi strascichi nell’autonomia delle puntate successive: almeno ciò accadeva nelle prime tre stagioni, perché la quarta e la quinta da questo punto di vista hanno avuto senza dubbio un’impennata. Mi aspetto molto dall’ultima stagione, anche da questo punto di vista.
