Recensione “Armageddon Time” (2022)

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Dopo Kenneth Branagh con Belfast e Steven Spielberg con The Fabelmans, arriva anche per James Gray il turno di raccontarsi in un film dall’enorme impronta autobiografica. In un altro universo Armageddon Time potrebbe anche essere una sorta di prequel del film d’esordio di Gray, il magnifico Little Odessa, ma ovviamente non lo è. Invece è evidente che il regista newyorkese abbia un debito con I 400 Colpi, visto che la storia che racconta ha moltissime cose in comune con il film d’esordio di Truffaut. Gray prende in prestito da una canzone dei Clash il titolo del film, rimandando immediatamente al periodo storico in cui si svolge: quello in cui Ronald Reagan si apprestava a diventare il nuovo Presidente degli Stati Uniti e la paura, neanche troppo irrazionale, di un’imminente guerra nucleare.

Armageddon Time racconta dunque l’incontro tra Paul, ragazzino ebreo dall’inequivocabile talento artistico, e John, compagno di classe nero, ripetente e dalla lingua lunga, entrambi vessati da un professore inetto e vagamente razzista. I due ragazzi, di estrazione sociale diversa, trovano un punto in comune nel piacere di svagarsi insieme, scoprendo nuove canzoni, combinando marachelle più o meno gravi. Paul è talentuoso, creativo e, dopo aver visto un quadro di Kandinskij in una catartica mostra al Guggenheim, sogna di diventare un’artista. La sua famiglia non la pensa proprio così: il padre è severo, frustrato e, come probabilmente ogni padre, sogna per il figlio una carriera che gli permetta di guadagnare molti soldi. Anche la madre, donna repressa in cerca di un riscatto sociale attraverso le elezioni del comitato scolastico, sottolinea come sia difficile diventare un artista e che sia meglio concentrarsi su altro. Unico membro della famiglia a dare manforte alle fantasie artistiche del giovane Paul è il nonno Aaron (che grande Anthony Hopkins!), memoria storica di diseguaglianze da eliminare e sogni da inseguire.

L’amicizia tra l’ebreo privilegiato e l’orfano nero che vive con la nonna malata è una trama costellata di mille trappole: James Gray lo sa ed è bravo a calpestare i cliché senza restarci però impantanato troppo a lungo. Il regista ha qualcosa da espiare e senza dubbio ha qualcosa da dire, in questo coming of age pieno sì di consapevolezze e sensi di colpa, ma tutto sommato dolce nei suoi progetti di fuga da un quotidiano senza apparenti possibilità, tenero nel suo sogno chiamato Florida. In un mondo che sembra quasi sull’orlo dell’armageddon, tutto ciò che si può fare, ad ogni età, in ogni epoca, è restare fedeli a se stessi e ai propri desideri. Lo aveva detto Branagh, lo aveva ribadito Spielberg, ce l’ha confermato Gray.

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