Capitolo 348: Una Vita al Massimo


Alla fine la primavera è arrivata, non solo sul calendario, e il sole brilla sui tetti dei palazzi, sulle strade della città, attraverso le finestre socchiuse delle case. In tutto ciò, la vita (da cinefilo) va al massimo, con tanti nuovi film di cui parlarvi, molti dei quali ho visto per la prima volta (ovvero tutti quelli che troverete in lista tranne il film di Roan Johnson, che avevo già visto al cinema più di dieci anni fa, e Lucky). Ci troviamo così ad omaggiare i 60 anni di Quentin Tarantino, con il film tratto dalla sua prima sceneggiatura. Dunque chiudiamo l’introduzione a questo Capitolo 348 proprio con una citazione di Tarantino (è una frase che ho letto in questi giorni e ho trovato davvero interessante): “Se non riesco a far parlare i personaggi, allora rinuncio. Se sono io a far parlare tra loro i personaggi allora sono fandonie e fasullagini. Diventa eccitante quando un personaggio dice qualcosa e io penso: Wow, ha detto proprio così? Non sapevo che avesse una moglie e la pensasse così!”

Armageddon Time (2022): Dopo Kenneth Branagh con Belfast e Steven Spielberg con The Fabelmans (ma anche Inarritu con Bardo, tra gli altri), arriva anche per James Gray il turno di raccontarsi in un film dall’enorme impronta autobiografica. In un altro universo Armageddon Time potrebbe anche essere una sorta di prequel del film d’esordio di Gray, il magnifico Little Odessa, ma ovviamente non lo è. Invece è evidente che il regista newyorkese abbia un debito con I 400 Colpi, visto che la storia che racconta ha moltissime cose in comune con il film d’esordio di Truffaut. Il protagonista è infatti un bambino ebreo che ne combina un po’ di tutti i colori, fa amicizia con un ragazzino nero e si mette continuamente nei guai, supportato solo dal nonno (che grande Antony Hopkins) e poco compreso da una famiglia che lo vorrebbe educare a un lavoro “vero”, mentre lui sogna di diventare artista. Mi è piaciuto ma non così tanto quanto avrei voluto, è come quando pensi di aver fame e vai a farti un panino dallo zozzone, è buono, ma alla fine ti accorgi che forse era più gola che fame. Comunque da vedere.

Lo Strangolatore di Boston (2023): Tra le cose che amo di più al mondo ci sono i thriller fatti bene (quelli di Fincher, per intenderci), il viso di Keira Knightley e vedere reporter che sanno fare il loro lavoro. Mettete insieme queste tre cose in un frullatore e avrete il film di Matt Ruskin, da poco uscito su Disney+. Il film racconta la storia (vera) del celebre killer che ha terrorizzato il Massachusets negli anni 60, già raccontato al cinema in un film omonimo del 1968 con Tony Curtis. Rispetto al film di Richard Fleischer però, che vedeva al centro della storia l’assassino, questo di Ruskin è raccontato attraverso lo sguardo delle due giornaliste che indagarono sugli omicidi dello strangolatore, in un’epoca in cui alle donne nelle redazioni venivano assegnati solo pezzi su costume e società, a dir tanto. Il debito con Zodiac è inevitabile, soprattutto da un punto di vista stilistico: ovviamente il risultato non è proprio lo stesso, nonostante sia comunque un film molto buono. Un po’ come quelle frasi che si trovavano nei diari degli adolescenti: “Punto alla Luna, male che vada atterro sulle stelle”, o qualcosa del genere.

I primi della lista (2011): Opera prima di Roan Johnson, bravissimo regista pisano, che nel suo film d’esordio decide di raccontare la storia vera di tre ragazzi in fuga. Siamo nel 1970, periodo pieno di turbolenze (pochi mesi prima la strage di Piazza Fontana e il “suicidio” dell’anarchico Pinelli avevano gettato l’Italia in un buio pessimismo), quando il giovane cantautore Pino Masi viene casualmente a sapere che sta per avere luogo un colpo di stato e che i fascisti sono pronti a riprendersi il Paese. Terrorizzati da botte, torture e rappresaglie nei loro confronti, Masi e altri due ragazzi, tutti musicisti di sinistra, decidono in quattro e quattr’otto di darsi alla fuga e chiedere asilo politico all’estero, per poter così continuare a cantare le ingiustizie dell’Italia. Tre ragazzi diversi tra loro, spaventati da qualcosa molto più grande delle loro vite, fino a quel momento fatte di collettivi studenteschi, bar, qualche ragazza e le corde di una chitarra. Una fuga che diventa un viaggio; forse una ragazzata, forse un’avventura: punti di vista. Ad ogni modo tutta quella strada percorsa cambierà il futuro dei tre protagonisti e il loro modo di affrontare il mondo, anche perché, parafrasando De André, quello che non hanno è quel che non gli manca. Da vedere (è su Mubi).

Fino all’ultimo indizio (2021): Qualche tempo fa, parlando di thriller con mio cognato, uscì nella conversazione questo film che non avevo mai sentito, in originale The Little Things. Incuriosito, oltre che incoraggiato dalle sue parole, me lo sono andato a cercare e ciò che ho scoperto è un buon film di genere: Denzel Washington è uno sbirro in pensione che si ritrova per caso a Los Angeles dove nota che gli omicidi sui quali sta indagando il giovane Rami Malek hanno lo stesso modus operandi di quelli sui quali aveva indagato lui stesso in passato. I due cominciano quindi a collaborare e a indagare insieme, mettendo in cima alla lista dei loro sospettati un tipo strambo a cui presta il volto Jared Leto. Alla regia c’è John Lee Hancock, che scrisse la sceneggiatura a inizio anni 90 per essere diretta da Steven Spielberg (!), il quale in seguito rifiutò di girare il film ritenendo la storia troppo cupa. Dopo i rifiuti di Clint Eastwood, Warren Beatty e Denny DeVito, e dopo tre decenni, Hancock deve essersi stufato di vedersi sbattere la porta in faccia e se l’è girato da solo. Ha fatto bene, è un buon film.

Old (2021): M. Night Shyamalan è un regista che, a parte “Il Sesto Senso” (che è davvero un bellissimo film), galleggia in una filmografia di lavori più o meno decenti ma mai del tutto riusciti. Old, che male non è (ma neanche è davvero buono), si aggiunge perfettamente alla lista: alcuni ospiti di un resort di lusso finiscono su una spiaggia isolata dalla quale non possono più uscire. Il problema è che su questa spiaggia si invecchia che è una bellezza, visto che ogni ora che passa sono circa 2 anni di vita che volano (per cui, minuto dopo minuto, i bambini diventano adulti e gli adulti anziani). L’idea di base, tratta da una graphic novel di Pierre Oscar Levy, è senza dubbio affascinante, anche per tutto l’apparato filosofico e sociale che si può montare dietro, e il film di Shyamalan è godibile, regge perfettamente il tempo che gli si dedica, salvo poi farsi dimenticare già il giorno dopo che lo si è guardato. Apprezzabile, è su Prime Video.

Lucky (2017): Il suono di un’armonica tra i cactus e la polvere del deserto. Il volto scavato di Harry Dean Stanton, alla sua ultima, emozionante, interpretazione. Il film d’esordio di John Carroll Lynch è un racconto country, una lezione di vita sotto il sole battente di un piccolo paesino del Sud degli Stati Uniti. Una storia che sembra uscita da una canzone di Johnny Cash o da Western Stars di Springsteen, è il racconto di un arzillo pensionato alle prese con la consapevolezza della mortalità. La bellezza di questo film è nella quasi inconsapevole poesia che riesce ad emanare attraverso i suoi personaggi, nello spaccato di una comunità provinciale stramba ma unita, dove si indaga costantemente tra le sfumature dell’essere soli e del sentirsi soli (in tal senso quant’è bello il personaggio di David Lynch!). A tratti cinica ma decisamente emozionante, è la storia di un ateo indomito che alla soglia dei 90 anni comincia a preoccuparsi per quello che succederà dopo. Harry Dean Stanton tira fuori l’interpretazione della vita, che sembra quasi metacinema, lasciandoci in eredità un personaggio che difficilmente dimenticheremo presto. Come affrontare il vuoto, il buio, il nulla che ci aspetta? Come non farsi schiacciare dal peso del tempo che passa? Lucky ci suggerisce una via, tra piante grasse e testuggini centenarie. Vi innamorerete di questo film (ovviamente è su Mubi).

Er gol de Turone era bono (2022): Alla Festa del Cinema di Roma dello scorso autunno non sono riuscito a vederlo, nonostante le mie migliori intenzioni (“perché devo alzarmi alle 7 di domenica mattina per andare a farmi rodere il culo?” disse un mio amico saggio). L’ho ritrovato su RaiPlay e stavolta ho deciso di dare una chance al racconto di una delle leggende calcistiche più celebri della storia del calcio italiano. Siamo nel 1981, a poche giornate dalla fine del campionato è in programma Juventus-Roma, con i bianconeri primi in classifica con un solo punto di vantaggio sui giallorossi. A una manciata di minuti dal termine della partita, ferma sullo 0-0, il difensore della Roma Maurizio “Ramon” Turone insacca un bel gol di testa, ma la gioia dura poco, visto che l’arbitro Bergamo annullerà la rete per un fuorigioco probabilmente inesistente. A causa di quel gol annullato, ormai entrato nell’immaginario collettivo di ogni tifoso della Roma e di cui si parla ancora dopo oltre 40 anni, il campionato andrà alla Juve. Il documentario racconta quella giornata attraverso il racconto dei calciatori in campo (di entrambe le squadre), gli arbitri, i tifosi che quel giorno erano presenti allo stadio, tra cui Paolo Calabresi, che in un episodio di Boris rivolgerà, nei panni di Biascica, la fatidica domanda allo juventino Sergio Brio: “Ma er gol de Turone era bono?” (in realtà la domanda era un’altra, ma avete capito). Il documentario è interessante, forse decisamente troppo televisivo, ma ben fatto. Memorabile la scena in cui lo stesso Turone, oggi, rivede per la prima volta il filmato del suo gol, che non aveva mai avuto il coraggio (o la voglia) di riguardare, tanta era la frustrazione e la rabbia. Una delle più grandi leggende sportive italiane, che dopo tanto tempo ancora fa male. Il mio amico saggio aveva ragione.

Una vita al massimo (1993): Un film fondamentale per la storia del cinema. Voi giustamente penserete che mi sono drogato pesantemente, in realtà c’è un motivo dietro questa asserzione: è stata la prima sceneggiatura venduta da Quentin Tarantino, nel 1987. Nel film diretto da Tony Scott c’è effettivamente tanto di Tarantino (nei dialoghi, soprattutto): la passione del protagonista per Sonny Chiba il cinema di arti marziali, l’amore per Elvis, l’assurdo monologo sulla discendenza dei siciliani, lo stallo alla messicana e molto altro. La storia racconta la fuga di Christian Slater e Patricia Arquette da Detroit verso Los Angeles, dopo che lui ha ucciso l’ex protettore di lei, rubando per sbaglio una valigia piena di cocaina. Sulle tracce della coppia ci sarà la polizia ma anche una famiglia mafiosa, oltre che un produttore cinematografico interessato all’acquisto della merce. Un film d’amore (come suggerisce il titolo originale True Romance), ma anche una storia di criminalità, di violenza più o meno gratuita, di battute fulminanti e di sogni da realizzare. Divertentissimo nella sua giostra di personaggi, con un cast decisamente clamoroso: oltre ai già citati Slater e Arquette, troviamo Christopher Walken, Val Kilmer, Gary Oldman, Dennis Hopper, James Gandolfini, Brad Pitt, Samuel L. Jackson, Tom Sizemore, Chris Penn e molti altri. Notevole la colonna sonora di Hans Zimmer, film da riscoprire.

SERIE TV: Dopo aver finito I Soprano e The Last of Us, sono decisamente messo in pausa qualunque idea di serie tv. L’unico lusso che mi concedo è l’episodio settimanale della terza stagione di Ted Lasso, di cui sono uscite solo due puntate e per cui è ancora troppo presto per esprimersi. Evitando qualunque spoiler, posso solo dire che nel primo episodio vengono messe le carte in tavola per questa nuova stagione, in cui il Richmond è tornato in Premier League e deve fare i conti con le previsioni di retrocessione, oltre che con il “tradimento” di quello che per due stagioni era stato un fidato collaboratore del coach Lasso, ovvero Nathan. Il secondo episodio invece già contiene parecchie chicche, oltre all’introduzione di un nuovo personaggio abbastanza clamoroso, sul quale ovviamente non dirò una parola in più. Una cosa sola: qualcuno dovrebbe dire a Ted che a Torino la cacio e pepe non sanno neanche come si fa, temo.

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