Recensione “Il Sol dell’Avvenire” (2023)

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Poche cose mi danno gusto come andare al cinema a vedere un nuovo film di Nanni Moretti, soprattutto quando si tratta di un ritorno a un film più “morettiano” del solito, dove il regista e attore mette se stesso al centro di ogni scena, trasferendo su pellicola i suoi pensieri su politica, cinema, relazioni interpersonali, magari con un classico della musica italiana in sottofondo. Il Sol dell’Avvenire è la quintessenza del cinema di Nanni Moretti, con Fellini in una tasca, Palmiro Togliatti nell’altra e una scena finale che in qualche modo mette il punto e virgola al cinema del regista romano: “con questo film finisce la primissima fase della mia carriera, ora comincio la seconda che durerà una cinquantina d’anni“, ha affermato ironicamente lo stesso Moretti in conferenza stampa.

Giovanni è un regista alle prese con il suo ultimo film, incentrato su un circolo del Partito Comunista Italiano che ospita lo show di un gruppo di circensi ungheresi, arrivati in città proprio mentre le truppe sovietiche entravano a Budapest nel 1956, dando il via alla rivoluzione ungherese che avrebbe cambiato per sempre il futuro del PCI. Tra difficoltà sul set, una produzione tormentata e il pensiero costante rivolto verso le future sceneggiature, il regista deve fare i conti anche con la sua vita privata, con una moglie-produttrice che sembra allontanarsi sempre di più da lui (e dalla sua idea di cinema) e una figlia alle prese con una storia d’amore un po’ fuori dagli schemi.

Vera e propria finestra sulla mente di Moretti, Il Sol dell’Avvenire offre una moltitudine di chiavi di lettura, dalla polemica nei confronti della struttura “industriale” ricercata dalle piattaforme streaming (“Le piattaforme vanno bene per le serie tv, i film vanno visti in sala”), alla nostalgia nei confronti di un attivismo politico ormai in fase terminale, senza perdere di vista il nocciolo di tutto, di tutti: l’ineluttabilità del tempo che passa (“Avrei dovuto girare questo film anni fa”). Ovviamente tra commozione e ironia, non manca la scena cult che resterà impressa nel sorriso di ogni spettatore: la straordinaria polemica con il regista esordiente, pretesto per lanciare l’ennesima invettiva morettiana, stavolta contro l’estetizzazione della violenza nel cinema contemporaneo. E così, tra un capolavoro di Fabrizio De André all’immancabile hit di Battiato, Nanni Moretti centra il suo personalissimo 8 e 1/2, facendoci lasciare la sala più ricchi e al tempo stesso più leggeri di come c’eravamo entrati. Lunga vita a Nanni Moretti!

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