Era un bel po’ di tempo che non si verificava un capitolo così intenso a livello di sala cinematografica. Due proiezioni stampa e ben quattro film visti in sala, un bel modo per avvicinarmi al mio compleanno di domani. Quando entro al cinema mi siedo sempre in fondo, ultima fila, e quando le luci si spengono guardo le teste delle persone davanti a me, di fronte a questo luminoso schermo bianco. A questo punto rifletto per qualche secondo su quanto sia incredibile l’invenzione del cinema. Lo so, a volte mi soffermo sulle banalità, ma trovo ancora il piacere di meravigliarmi.
Pietà (2012): Più che il titolo di un film, una richiesta a Kim Ki Duk. Vincitore di Venezia, il regista coreano è uno di quelli che ho sempre amato, ai quali ho sempre voluto bene, ma questo film è svogliatissimo. Il tema della vendetta è trito e ritrito, e poi la Corea grazie a Park Chan Wook su questo argomento ha prodotto una certa trilogia di ben altro spessore. Deludente, mi sono annoiato terribilmente.
Amour (2012): Eccone un altro. Haneke, un regista che amo pazzamente. Dopo “Il nastro bianco” ho aspettato con ansia l’uscita di questo film e puntualmente mi sono stancato di vederlo dopo neanche venti minuti. Prevedibile, terribilmente prevedibile, inevitabile, ordinario. Una storia d’amore, dice il titolo, ma più che emozionarsi per l’amore del magnifico Trintignant, si prova pena, e si sbadiglia. Certo, piazzare l’anteprima stampa di un film del genere di mattina presto non ha sicuramente aiutato. Nel giro di una ventina d’ore sono riuscito a rompermi le scatole con i due film vincitori di Venezia e Cannes. Cosa mi sta succedendo?
On the road (2012): Se dimenticate Kerouac, è un film in fondo piacevole. Però dovete dimenticare il libro, dimenticare l’immensa e faticosissima opera di riferimento. Buone alcune sequenze di viaggio così come è piuttosto buono il ritmo: mancano forse attori all’altezza del grande compito, e inoltre si esagera fin troppo con le libertà sessuali dei protagonisti (per quanto non sia spiacevole ammirare Kristen Stewart in uno di quei film in cui è davvero bellissima). Un po’ troppa sregolatezza e un po’ troppo poca caratterizzazione, troppi viaggi esteriori e pochi viaggi interiori, nella psicologia dei personaggi. Tutto sommato piacevole, fa venire fame di strada.
Padroni di casa (2012): Bellissima sorpresa. Elio Germano e Valerio Mastandrea sono sempre un buon motivo per pagare il biglietto del cinema, soprattutto adesso che sono insieme nello stesso film. Parte con leggerezza e lentamente precipita nel dramma, con un eco al “Cane di Paglia” di Peckinpah, e un omaggio a “MASH” di Altman (con la canzone “Suicide is painless”, anche se preferisco la cover dei miei amati Manic Street Preachers). Un film al di fuori di ogni genere, una pellicola italiana che ha il coraggio di uscire dai soliti schemi. Bravissimo Gabbriellini, avanti così!
Killer Joe (2012): Mi aspettavo tanto da questo film di Friedkin, già regista de “L’esorcista” e de “Il braccio violento della legge”. Sono rimasto un po’ deluso, ma non tanto dal film in sé, quanto dai personaggi del film: non c’è una sola figura positiva, sono tutti dannatamente bastardi, tormentati, pazzi, cattivi. Ecco, sono tutti cattivi ed è proprio questo il punto: è un film cattivo, che vuole trattare male lo spettatore, e lo lascia infine andar via con una sensazione sgradevole addosso.
I’m still here (2010): Geniale. Davvero geniale. Uno dei film più pazzi e assurdi che abbia visto negli ultimi anni. Joaquin Phoenix annuncia clamorosamente il suo ritiro dal cinema per darsi all’hip hop, e Casey Affleck riprende passo dopo passo la distruzione dell’immagine pubblica da parte di un attore all’apice del successo. Si trattava di una burla, ma erano soltanto loro due a saperlo. Joaquin Phoenix praticamente ha continuato ad indossare i panni del suo personaggio anche nella vita privata, in ogni occasione pubblica, fino all’indimenticabile partecipazione al David Letterman Show, dove ha volutamente toccato il fondo della sua carriera. Un mockumentary totalmente pazzo, dove l’accoppiata Phoenix-Affleck prende in giro alla grande un’industria, una società, un Paese intero. Ripeto, geniale.
pubblicato su Livecity