Festa del Cinema di Roma 2016: Giorno 10

Sabato 22 Ottobre.
E anche questo Festival ce lo siamo levati… No, scherzo. In realtà sono tanto affezionato a questa manifestazione, la sento un po’ mia. Sarà perché ci sono stato per undici edizioni consecutive, sarà perché sono nato e cresciuto a dieci minuti (di macchina) dall’Auditorium, sarà perché quando annunciarono la nascita di un Festival cinematografico nella mia città io ero un giovane studente di cinema, pieno di sogni e belle speranze. Insomma, è un Festival che amo tanto. Ma basta pipponi nostalgici, siete qui per sapere di cosa sono stato testimone durante questa ultima giornata di proiezioni, quindi diamoci dentro perché è stata una giornata intensa, anche se al di sotto delle precedenti.

Cominciamo da “Lion” di Garth Davis, uno dei film più attesi. La storia vera di un bambino indiano che, dopo essersi perso all’interno di un treno per Calcutta, viene poi adottato da una facoltosa famiglia australiana. Vent’anni dopo si trasforma in Dev Patel (l’attore di “The Millionaire”, per capirci), va a una festa, mozzica una pietanza indiana che voleva mangiare da piccolo con il fratello e si ricorda tutta la sua infanzia: rovina la festa ai suoi amici di college attaccando la pippa sul suo passato, gli spiegano che esiste Google Earth e il buon Dev Patel, sguardo allucinato e strafatto per trequarti di film, nel giro di un po’ di tempo riesce forse a ritrovare il suo luogo di origine. La storia sarebbe anche splendida se non il film non fosse così retorico e didascalico: far vedere, scusate il termine, un cazzo di flashback ogni trenta secondi, non mi è parsa una grande idea registica. Quando lui sta sulla spiaggia a guardare il mare con aria malinconica si capisce che sta pensando a sua madre, a suo fratello, alla sua infanzia, non c’è bisogno di sparare il flashback ogni momento. Ho capito che siamo un po’ rincoglioniti, ma non fino a questo punto. Vogliamo parlare poi della visione di Nicole Kidman quando aveva 12 anni? Una cosa ridicola. Insomma, il film non mi è piaciuto proprio. Ah, dimenticavo: basta ad usare i bimbetti indiani super belli che corrono sorridendo, l’ha già fatto Danny Boyle con ben altri risultati. Mo lo trovo pure io un ragazzino di cinque anni troppo dolce che corre a piedi nudi sulle strade di Tor Marancia e ci faccio un film, poi vediamo se me lo prendono al Festival.

Dopo questo pippone di due ore sono corso dalla Sinopoli alla Sala Petrassi per un film che aspettavo molto: “La tortue rouge” di Michael Dudok de Wik, co-prodotto dal leggendario Studio Ghibli. 80 minuti di animazione senza dialoghi, soltanto paesaggi alla Malick e suoni della natura. Per quanto misterioso a livello narrativo, la storia del naufrago è poetica ed appassionante: un uomo che, dopo un iniziale conflitto con ciò che ha intorno, impara a rispettare la natura e a farsela amica. La natura, in cambio, gli regalerà una vita meravigliosa e una famiglia splendida. Perfettamente in linea con lo slogan “La natura non ha bisogno degli uomini, ma gli uomini hanno bisogno della natura”. Sui titoli di coda, mentre cercavo di assimilare in silenzio la poetica bellezza del film, mi sono piombati addosso e da ogni direzione tre commenti al film in un tempo netto di 5 secondi e mezzo. Mi sono alzato e sono uscito di gran carriera: io trovo sacro il momento successivo alla fine di un film, ho bisogno sempre di un paio di minuti di solitudine mentale per mettere insieme ciò a cui ho assistito (beh, quasi sempre, per “Lion” c’è voluto molto meno).

Subito dopo potevo tranquillamente andarmene e godermi un pranzo decente dopo tanto tempo, invece non volevo abbandonare il Festival, avevo bisogno di restare là un altro po’, così ho trovato la scusa buona: un paio di conferenze stampa. La prima era quella del regista de “La tortue rouge”, mi interessava capire di più a proposito del film, che da un punto di vista narrativo è un po’ bizzarro. Non ho risolto granché, così mi sono spostato in Petrassi per entrare nella macchina del tempo ed assistere alla conferenza del Festival del 1996: c’era Ralph Fiennes che parlava de “Il paziente inglese” (motivo per cui sia lui che Juliette Binoche e Kristin Scott Thomas erano stasera sul red carpet). Una fotografia in più per l’album dei ricordi, per la nostalgia futura.

Dovrei tirare le somme a questo punto. C’era poca gente, e la cosa mi è un po’ dispiaciuta perché, nonostante sia stato un Festival molto buono, mi è sembrato di viverlo poco. D’altra parte però i film sono stati davvero ottimi: come avete letto nei capitoli precedenti ho visto ogni giorno almeno uno o due film molto belli, a volte anche tre, e la cosa è stupefacente (a proposito, il premio del pubblico l’ha vinto “Captain Fantastic”). Mi aspetta dunque un sonno senza sveglie, sono stravolto e la cosa mi ha portato a domandarmi quanta passione ci deve essere in una persona per correre ogni mattina dall’altra parte di Roma per vedere due o tre film, ogni giorno per dieci giorni, per mettere in stand by la propria vita, mettere in pausa il proprio lavoro, quello vero (faccio il fotografo, non di certo il critico cinematografico o quello che è), passare un sacco di tempo in metropolitana, mangiando panini volanti seduti su gradini scomodi, senza essere retribuito (ovviamente, mica posso pagarmi da solo!), soltanto perché amo in maniera quasi malata questa arte, il cinema, una delle poche certezze delle nostre vite. Qualunque cosa succeda, avremo sempre un film da vedere, e finché nella nostra esistenza ci sarà un film, ci sarà anche la certezza di avere un motivo in più per essere felici. Grazie per aver seguito questo piccolo, stupido, diario: ho cercato di restituirvi un punto di vista diverso sul Festival. Ad ogni modo la vita da cinefilo continua, anche senza Festa del Cinema, perché finché c’è un film, c’è speranza.

tortue

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