Venerdì 21 Ottobre.
Stamattina con lo sciopero dei mezzi l’unico a funzionare è stato il treno per Busan: il film di Yeun Sang Ho, “Train to Busan” appunto, dopo aver conquistato il pubblico di Cannes si è concesso il bis anche a Roma. Applausi scroscianti, tanto divertimento, tante risate ma anche una messa in scena assolutamente dettagliata, precisa, mai troppo frenetica, mai troppo banale. La Corea del Sud è sotto allarme a causa di un virus che trasforma gli uomini in esseri rabbiosi, cannibali: zombie moderni insomma, ma di quelli che corrono veloci (se non dico eresie resi celebri da “Demoni” e più avanti da “28 giorni dopo”). Sul treno per la città di Busan, un manipolo di uomini si trova a fronteggiare la crisi, in una lotta senza quartiere tra zombi e sopravvissuti. Non amo esageratamente il genere, ma in questo caso il film aggiunge un’ulteriore conferma all’eccellenza del cinema sudcoreano. Comunque se proprio c’avete voglia di vedere un treno pieno di zombi, provate a prendere la metropolitana alle 8 del mattino.
Subito dopo, tutto un altro film, ma sempre molto bello (e molto più nelle mie corde): “The Hollars” mi ha fatto pensare subito ad Alexander Payne, o anche a Cameron Crowe. In mano loro il film di John Krasinski (qui anche protagonista) avrebbe potuto davvero avvicinarsi al capolavoro. Resta ad ogni modo una pellicola assolutamente bellissima, che ti fa uscire dalla sala con un sorriso grande così e una voglia incredibile di mettersi a correre per tutto l’Auditorium sulle note di una canzone tipo questa (presente nel film, tra l’altro). Non l’ho fatto, ma credetemi che ci ho pensato e per un attimo l’avrei anche fatto, il problema è che mi mancava la colonna sonora e soprattutto un pubblico in sala che mi guardasse su uno schermo. Cose belle e cose brutte della vita da Festival. In breve: un illustratore che vive a New York ed è in procinto di diventare padre torna nel suo paesotto di provincia perché sua madre è gravemente malata. Qui si trova a dover fare i conti con la sua strampalata famiglia, un rancoroso compagno di liceo e una sua ex ragazza che sembra non averlo dimenticato. Si fanno belle risate e si gode soprattutto di un piacevolissimo mood. Per come mi ha fatto sentire è uno di quei film che mi rivedrei volentieri: certo, è lontano da essere uno dei migliori della rassegna, ma se è di queste piccole gioie che uno ha bisogno per sentirsi un po’ più vivo, beh, che dire, ben venga il bis.
Nel pomeriggio, proprio al penultimo giorno di Festival, succede una di quelle cose che non mi sono mai capitate in 11 edizioni: essere il primo della fila accreditati per entrare in sala ad una proiezione per il pubblico. Ok, se non siete addetti ai lavori questa cosa vi suonerà un po’ incomprensibile, ma sappiate che essere il primo di una fila spesso molto lunga è una di quelle cose che se vi capitano una volta poi non le dimenticate per un po’. A darmi tanto onore è stato un film coprodotto da Spagna e Argentina e interpretato quasi interamente da argentini (ho riconosciuto l’inconfondibile accento, fatemi vantare di sta cosa, anche se la splendida protagonista è invece spagnola). Parliamo di “Al final del tunel” di Rodrigo Grande, una delle cose più geniali viste finora. Non ricordo altri film con un applauso così intenso a fine proiezione. La storia ci mette una mezzoretta a decollare, inizialmente non sembra chiaro dove voglia andare a parare e non è neanche così divertente, poi però si entra nel vivo della storia e ci si diverte tra colpi di scena impensabili e trovate geniali che facevano urlare all’intera sala lunghissimi “noooooo” di apprezzamento. Un ingegnere costretto alla sedia a rotelle affitta una parte del suo enorme appartamento ad una ragazza madre molto attraente. La sua bambina non dice una parola da ormai due anni e la situazione è un po’ bizzarra. Una notte mentre Joaquin (l’ingegnere) sta lavorando nello scantinato, scopre che una banda di ladri, dall’altra parte della parete, sta preparando una rapina in banca. Per Joaquin potrebbe essere l’occasione di trovare i soldi per operarsi e abbandonare la sedia a rotelle, ma l’affare si fa sempre più pericoloso e imprevedibile. Gli ultimi venti-trenta minuti sono una bomba, tra splendide citazioni tarantiniane, voltafaccia, colpi di scena e tante risate. Il film è passato un po’ in sordina ma è decisamente uno di quelli che andavano visti (davvero un peccato per chi l’ha perso).
Al ritorno, sempre grazie al meraviglioso sciopero che in pieno Festival non poteva proprio mancare, ho impiegato circa un’ora e mezza per tornare a casa, ma questa è un’altra storia. Domani ultimo giro di proiezioni, poi i saluti malinconici e le somme da tirare. Ultime foto, ultima levataccia, ultimo viaggio all’Auditorium, ultimi saluti. Succede sempre così ai Festival: per tanti giorni non vedi l’ora che finisca, e poi quando sta per finire vorresti che durasse un po’ di più. C’è un po’ più di malinconia stasera sui miei occhi, ma suppongo che si tratti semplicemente di un sacco di sonno arretrato. Goodnight.