Recensione “BoJack Horseman” (2014-2020)

“In this terrifying world, all we have are the connections that we make”: le parole di BoJack in quello che ricorderemo come uno degli episodi più memorabili della serie (“Un pesce fuor d’acqua”, quarto episodio della terza stagione) in fin dei conti sembrano la descrizione perfetta di questo straordinario show, alla luce del finale che da pochi giorni è finalmente disponibile su Netflix. Non è facile parlare in poche righe di una serie d’animazione capace di farti esplodere in risate fragorose per poi pietrificarti con le sue vicende, le sue verità, il suo acre odore di malinconia, che aleggia, chi più chi meno, su tutti i personaggi. Il resto di questo approfondimento contiene spoiler sul finale di “Bojack Horseman”, dunque andate avanti nella lettura solo nel caso in cui lo abbiate visto.

Sembra incredibile a pensarci: un cartone animato ambientato in un mondo popolato da animali antropomorfi (ai quali sono affidati i dettagli più esilaranti della serie, durante praticamente ogni cambio di scena) è forse lo show più credibile e onesto nel parlare di dipendenze e depressione. Bojack è un personaggio negativo, egoista, cinico, con il quale dovrebbe essere impossibile entrare in empatia, eppure il suo bisogno di affetto e di amore lo rende così umano che ci sembra quasi di conoscerlo meglio di chiunque altro. In sei anni un’alternanza di episodi gioiello (e talvolta piccoli capolavori), tra riferimenti alla cultura pop che mettono in mostra i lati più oscuri di una Hollywoo(d) a noi preclusa, dalla quale sembra però di sbirciare dal buco della serratura.

Nel finale sotto il cielo stellato, Diane e BoJack tengono quella che potrebbe essere la loro ultima conversazione, un po’ amareggiati ma comunque in pace per essere diventati le persone che sono, anche grazie alle terribili esperienze vissute nel loro passato: la vita altro non è che è una serie di nuovi inizi e BoJack lo impara ancora una volta, nel tentativo (stavolta speriamo non vano) di ricominciare di nuovo, mettendo da parte il passato per diventare finalmente la persona che sente di essere. Il passato non si può negare, c’è, non se ne andrà mai, devi in qualche modo riconoscerlo, abbracciarlo e dunque attraversarlo. Tutto ciò emerge a maggior ragione dopo i mesi di prigione e soprattutto l’esperienza pre-morte del penultimo episodio dove, in una sorta di loggia di Lynchiana memoria, incontra i defunti della sua vita in uno spettacolo inquietante, in cui è simbolico il tentativo di far uscire un cardellino rosso dalla sala (nella simbologia cristiana è l’anima dell’uomo che vola via quando si muore). Sulle note malinconiche di “Mr. Blue” di Catherine Feeny si chiude uno degli show più belli dello scorso decennio: “Sometimes life’s a bitch and then you just keep living”, la vita a volte è una merda, ma non possiamo davvero far altro che continuare a vivere.

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