
Se la parola “disgustoso” avesse un’accezione positiva, allora la schizofrenica e assurda opera prima di Phil Tippett si potrebbe definire di disgustosa bellezza. Tippett, premiato agli Oscar per gli effetti speciali de Il Ritorno dello Jedi e Jurassic Park (non due film a caso), dopo 30 anni di lavorazione, di affanni e quasi rinunce, realizza la sua grande impresa folle e visionaria, una sorta di horror in stop-motion dove racconta un mondo creato da un dio matto (come suggerisce il titolo), un luogo dal quale sgorga cinismo, mostruosità e pura crudeltà. Un estratto dal Levitico apre il film (La tua terra diventerà una desolazione e le tue città una rovina), dove attraverso gli occhi di un curioso e al tempo stesso spaventato esploratore ci addentriamo in questo panorama infernale, un’enorme catena di montaggio dove ogni cosa è fagocitata dall’estetica del regista californiano, in una serie di paure e distruzioni senza soluzione di continuità.
Il primo atto del film infatti sembra il libro dei “coniglietti suicidi”, a parte il fatto che invece dei coniglietti ci sono dei mostriciattoli e invece dei suicidi ci sono delle morti buffe e accidentali, quasi da cartone animato, come treni in corsa, incudini che cadono, rulli stradali che schiacciano, sedie elettriche che friggono e qualunque altra cosa vi venga in mente (se avete pensato a qualcosa, beh, c’è, statene certi). Il viaggio attraverso l’inferno messo in scena dal maestro degli effetti speciali, che qui sperimenta e coniuga tecniche di vario genere, continua e affonda nei nostri occhi, lasciandoci per gran parte del film con il naso arricciato (ma sempre a causa di quel “buon” disgusto di cui parlavamo prima). Scena dopo scena, questo assurdo mondo popolato da mostri, scienziati pazzi, medici della peste, balie inquietanti e quant’altro, va avanti nella sua follia visionaria, a tratti astratta, in costante decomposizione ma pronta immediatamente a rinascere, per poi decomporsi nuovamente.
C’è qualcosa di Lang, ma forse anche di George Miller, c’è qualche eco di Del Toro o Peter Jackson, c’è una sorta di sabbipode steampunk e un cugino ancor più brutto di Jabba The Hutt. C’è tutta una storia non verbale che è pressoché impossibile da seguire, ma c’è invece una ben distinta estetica visiva che non ti permette di staccare gli occhi dallo schermo neanche per un istante. Tippett vuole infatti sopraffare lo spettatore e lo fa senza un solo dialogo in tutto il film, con scene apparentemente sconnesse, piene di dettagli all’inverosimile, sommando ai numerosi anni di lavorazione l’evoluzione delle tecniche impiegate, aggiungendo alla crudeltà altra crudeltà, in una collezione di gironi danteschi dove bisogna lasciare ogni speranza prima di entrare. Descrivere a parole un’esperienza visiva di questa portata è complicato, piuttosto va tentata, sempre che ne abbiate la pazienza e, soprattutto, il fegato.
