Recensione “The Myth of the American Sleepover” (2010)

Quando raggiungi i quarant’anni avviene quello strano miracolo per cui cominci a ricordare l’adolescenza come un periodo magico, pieno di vita, gioia, possibilità, nuove esperienze e amicizie che resteranno per sempre. Gioia? Edonismo? Socialità? Per molti l’adolescenza è stata un incubo apparentemente senza lieto fine, pieno di disagio, malinconia, costrizioni sociali e amici imbarazzanti. David Robert Mitchell fa il suo esordio nel lungometraggio con un indie d’autore che sfata il mito del teen movie e dell’edonismo adolescenziale sfrenato e demenziale. I suoi adolescenti sono malinconici, più profondi di quanto ci si possa aspettare, in una versione più cupa e disillusa del meraviglioso American Graffiti di Lucas, dove almeno a far da sfondo alla personalità combattuta dei personaggi c’era una provincia statunitense piena di luci, voglia di divertirsi e necessità di essere felici. I quattro protagonisti di questo film invece, due ragazzi e due ragazze, non vivono in una provincia luminosa e dall’emozione a portata di mano, si muovono invece nei sobborghi di Detroit, in uno scenario più vicino alla noia dei giovani di Larry Clark che alla superficialità di quelli di American Pie, alla fame di vita di quelli di Dazed and Confused o Tutti vogliono qualcosa o al tenero romanticismo dei teen movie di John Hughes.

L’ultima notte prima dell’inizio del liceo ragazzi e ragazze, rigorosamente separati, sono soliti riunirsi a casa di alcuni di loro per un ultimo pigiama party. Per questo in città ci sono diverse festicciole, dove i ragazzi stanno insieme a guardare qualche film (o una sorella maggiore particolarmente annoiata) e le ragazze si riuniscono invece per chiacchierare e condividere confidenze, mentre i più grandi invece, quelli che al liceo già ci vanno, si muovono in sottofondo tra feste più movimentate, ambite da alcuni dei più giovani come luoghi dove poter finalmente fare tutto quello che in estate ancora non è stato fatto. C’è quindi la nuova arrivata che cerca di farsi nuove amicizie, la ragazza estroversa che cerca di abbordare un ragazzo più grande, il ragazzino che ha un colpo di fulmine al supermercato per una sua coetanea e gira la notte di casa in casa per ritrovarla, il neodiplomato che il liceo invece l’ha finito e, pur distrutto dalla rottura con la sua ragazza, va in cerca di due gemelle, ex compagne di classe, tentando di capire quale delle due avesse una cotta per lui.

Quello di David Robert Mitchell, regista poi esploso con il bellissimo It Follows e consacratosi con lo splendido Under the Silver Lake, è uno dei coming of age più maturi mai visti sullo schermo (“John Hughes con un abbonamento ai Cahiers du Cinema”, come lo hanno definito negli States). Il mito del pigiama party americano, come recita il titolo, è proprio quello dell’avventura promessa dall’adolescenza, il cui dazio da pagare è la rinuncia all’infanzia, con la sua spensieratezza, le sue feste innocue o la bellezza di “stare seduti sul tappeto con gli amici a giocare a un gioco da tavola”. Ci sono alcuni scambi tra personaggi che sono bellissimi e ancora più eloquenti sono i loro non detti, i sottotesti, come i numeri di telefono sull’avanbraccio di una ragazza o il ballo improvvisato dalla giovane Maggie alla festa dei ragazzi più grandi, che dice di lei più di quanto possano dire le parole. Emerge dunque una gioventù in cerca sì di facili avventure, come in tanti film del filone adolescenziale, ma che poi messa di fronte ai propri desideri capisce che il mito di quella notte, quella prima del liceo, quella prima dell’adolescenza vera e propria, è soltanto un’illusione. La vita continuerà anche se cominci la scuola senza aver ancora baciato nessuno e, anzi, potrebbe anche avere un sapore meno amaro. Disarmante nel realismo della sua rappresentazione, perfettamente chiuso da The Saddest Story Ever Told dei Magnetic Fields sui titoli di coda, David Robert Mitchell ci fa capire che è possibile fare un film sugli adolescenti con un impronta d’autore, senza dover per forza mostrare divertimento sfrenato o ragazzi e ragazze in cerca di guai. Parafrasando Gaber, i personaggi di questo film non si sentono adolescenti ma, per fortuna o purtroppo, lo sono: un gioiello.


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